Con l’arrivo del lockdown nel marzo 2020, un numero elevatissimo di lavoratori è stato catapultato, per necessità, nel mondo dello smart working (o “lavoro agile”). Si è trattato di una scelta forzata, dettata dalla necessità di protezione della salute, che ha però consentito a molti di continuare a lavorare, pur con tanti limiti e difficoltà. Molti dovevano far incastrare i tempi di lavoro di moglie e marito, la DAD dei figli a scuola, i giochi dei figli piccoli. Il tutto spesso con dotazioni informatiche un po’ improvvisate, connessioni insufficienti, spazi ridotti. Ma abbiamo resistito.

Finito il lockdown il ricorso al lavoro da casa è parzialmente diminuito ma, stante il perdurare della pandemia, è continuato fino ad ora.

Il benefico diffondersi dei vaccini e la ripresa dell’economia sta spingendo molti datori di lavoro a chiedere ai lavoratori un rientro “in presenza”. Il caso più “rumoroso” è quello dei dipendenti della Pubblica Amministrazione: il 24 settembre, con apposito decreto già annunciato dal ministro Brunetta, è stato stabilito che i lavoratori pubblici ritorneranno a svolgere l’attività lavorativa in presenza (ad eccezione di una ridotta percentuale che potrà continuare in SW). Tuttavia concentrarsi solo sulla PA rischia di essere fuorviante: scelte simili sono state prese anche nel privato, in realtà sia grandi che medio piccole.

Questo ritorno alla “normalità” fa riflettere: sembrerebbe significare che l’esperienza di questi mesi sia stata solo un accidente momentaneo, che si sia lavorato da casa solo a causa della pandemia e che pertanto, passato il pericolo, si possa tornare a lavorare nell’ufficio fisico al quale eravamo abituati. Di fatto, quindi, questi mesi (un anno e mezzo) pare siano stati una parentesi che non ha portato molto frutto dal punto di vista del lavoro, dell’efficienza, della produttività, ancorché abbia consentito di proteggere i lavoratori dal rischio del contagio.

Credo che questo punto di vista, che purtroppo sta passando, sia molto limitato e limitante. In questi mesi, seppur forse con difficoltà (che peraltro si sono via via risolte), lo smart working ha mostrato tanto gli aspetti positivi che quelli negativi. Da un lato le ricadute benefiche sulle relazioni familiari (non tutte purtroppo), l’apprendimento di nuovi modi di lavorare, di rimanere collegati, di relazionarsi, dall’altro le inefficienze, le furberie di alcuni, i rallentamenti, le difficoltà informatiche.

Pro e contro devono essere messi sul piatto per capire cosa c’è di buono e può essere tenuto, magari contrattualizzato, definito, concordato, trovando al contempo soluzioni per capire cosa non è andato bene e perché. Per esempio alcuni lavori per loro natura non possono essere “smartabili”, se non penalizzando clienti e utenti, ma altri lavori possono essere svolti a distanza anche per lunghi periodi.

Smart working significa meno gente che si muove, quindi meno traffico e inquinamento, ma anche meno clienti che fanno pausa pranzo o colazione fuori dagli uffici, con ricadute sul settore dei servizi. Ma significa anche piccoli paesi che tornano un poco a ripopolarsi, persone che usano le 2/3 ore solitamente trascorse sul treno e in macchina per lavorare meglio, godersi la propria casa, la famiglia, i parchi e le strade del proprio quartiere.

La pandemia ci ha costretti a scoprire questo nuovo modo di lavorare: datori di lavoro, lavoratori e sindacati, discutendo in modo aperto e trasparente, possono valorizzare appieno questa esperienza che, se ben definita porterà benefici a tutti. Tornare al “pre-pandemia” significherebbe fingere che tutto è tornato come prima: ma ogni crisi porta cambiamento, non coglierne i segni ci farebbe solo perdere tempo nell’illusione di un passato che, seppur recente, è già un lontano.