Ritrovare nella città l’orgoglio di una patria

“Brescia nascita di un leone”: il titolo campeggia a tutta pagina sul quotidiano Il Foglio del 12 novembre scorso. Maurizio Crippa, autore dell’articolo, partendo dalle carte medievali esposte nel Museo Santa Giulia per la mostra “La città del Leone”, ricorda i “privilegi di Orzivecchi” e la serie di documentazioni storiche che riportano i fasti bresciani prima della dominazione veneta. A detta del giornalista, paese meno noto di quell’Orzinuovi che, di privilegi, dalla città di Brescia ne ricevette altrettanti dal 1193.

Quella del Foglio è un’incursione davvero interessante tra le mura delle due città divise dal fiume Oglio, prima che Venezia facesse di entrambe un boccone prelibato ed esotico al tempo stesso, quasi quanto la combinazione tra i due capoluoghi della Lombardia orientale, che insieme saranno la Capitale della cultura 2023, dopo i giorni della mattanza pandemica. Ne trapela una riflessione che va oltre il giudizio sulla mostra in sé: nella disputa tra amministrazioni locali e partiti, vi sono, da una parte, i “patrioti geneticamente immacolati” e, dall’altra, chi di patria parla con convinzione solo dai tempi del presidente Ciampi, rilevando il “gene” mazziniano in tutta la nostra storia, da quella monarchica liberale, poi social-rivoluzionaria-internazionalista, successivamente fascista e infine, grossolanamente, democristiana, per finire con l’involuzione dell’«uno vale uno».

L’orgoglio civile per una lunga storia

In tutte queste giravolte, il senso di appartenenza a una storia umana e sociale comune ha registrato nel corso degli anni un nuovo impulso anche nel mondo “progressista”, che, pur preda spesso dei suoi stessi luoghi comuni, è stato in grado di alimentare un nuovo “fronte  municipale”, recentemente codificato nella candidatura di Brescia e Bergamo. Nell’articolo di Crippa – che presenta la mostra come «l’evento identitario che qualsiasi leghista avrebbe sempre sognato di realizzare, mentre, invece, è organizzato da una amministrazione di sinistra» – Emilio Del Bono definisce “patriottismo municipale” l’orgoglio per una storia civile così lunga, “fidelis fidei et iustitiae”, come recita l’epigrafe collocata su Palazzo Loggia. Una categoria, quella indicata dal sindaco di Brescia, che può essere compresa solo attraverso l’esperienza della civicità diffusa del mondo associativo e volontaristico, oppure ancora nel radicamento delle imprese e delle “maestranze” professionali che rappresentano plasticamente (e realmente) questi territori in un virtuoso crescendo di dialogo tra locale e globale: un vero unicum nel panorama quanto meno nazionale.

I cristiani e la patria

Una prospettiva connaturata alle radici cattoliche di queste terre, che hanno dato i natali ai due grandi Papi che hanno fatto il Novecento, i santi Giovanni XXIII e Paolo VI, profondamente figli di due piccole “patrie”, ma campioni dello sguardo universale (perché, pienamente, “cattolico”). È l’humus che ha generato gli antidoti contro ogni visione egoista, campanilista o, peggio, nazionalista, di patria, cioè di quella che indichiamo come “terra dei padri” (e delle madri, come diremmo oggi). Perché quel sentire affonda le radici nella grande lezione della “Lettera a Diogneto”, l’antico testo cristiano mai menzionato da nessuno degli autori antichi e medievali, che illumina il rapporto tra i fedeli di Cristo e lo Stato. “I cristiani non si differenziano dagli altri uomini né per territorio, né per il modo di parlare, né per la foggia dei loro vestiti. Infatti, non abitano in città particolari, non usano qualche strano linguaggio, e non adottano uno speciale modo di vivere. Risiedono in città sia greche che barbare, così come capita, e pur seguendo nel modo di vestirsi, nel modo di mangiare e nel resto della vita i costumi del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e, come tutti hanno ammesso, incredibile. Abitano ognuno nella propria patria, ma come fossero stranieri; rispettano e adempiono tutti i doveri dei cittadini, e si sobbarcano tutti gli oneri come fossero stranieri; ogni regione straniera è la loro patria, eppure ogni patria per essi è terra straniera”.

Una visione liberante ma, allo stesso tempo, non disimpegnata verso le istituzioni, come ricordava con orgoglio don Tonino Bello in una famosissima lettera del 20 febbraio 1986, in risposta alle critiche di Indro Montanelli sull’obiezione di coscienza alle spese militari: «Stia tranquillo signor direttore. Il senso dello Stato e della storia non ci sentiamo di chiederlo in prestito a nessuno. Amiamo l’Italia anche noi, almeno quanto lei. La nostra Italia, laica, repubblicana, fondata sulla costituzione. E chi avanza dubbi sul nostro religioso rispetto verso le istituzioni dello Stato, ci offende non meno di chi dubita del nostro amore verso la Chiesa».

Che cosa ci unisce

Quale prospettiva migliore per illuminare il cammino verso una concezione di patria non fondamentalista ma nemmeno relativista? O per combattere l’incontestabile secolarizzazione che ha portato ad anteporre le quisquiglie nazionalistiche (sempre foriere di guerre, miseria e dittature) alla verità del sentirsi a casa in ogni dove? Credo che un pensiero come questo lo fecero molti dei combattenti per la libertà, dalle Fiamme Verdi alle Brigate Garibaldi, così lontani da casa e dalle loro “patrie famigliari”, divise su tutto, ma così uniti nella conquista della libertà, contro i soprusi dell’umanità avariata.

«Forse non capiamo gli ucraini perché in noi il senso di “nazione”, inteso come ideali e percorsi condivisi, continua a essere debole» scrive il professor Vittorio Emanuele Parsi nel recente Il posto della guerra e il costo della libertà (Bompiani, 2022). «A parole sappiamo essere “nazionalisti”, soprattutto quando evochiamo il destino di una nazione le cui radici affondano, di volta in volta o allo stesso tempo, nella romanità, nella cristianità, nell’etnia, nella lingua più bella, nella cucina più buona, nello stile più elegante del mondo. Ma la vicenda di un popolo che combatte, e muore, per la sua libertà, oltre che per quella di tutta l’Europa, e per il futuro della democrazia, quella ci smuove poco».

Per questo varrebbe la pena affrontare una sana visione di patria anche oggi, di fronte alle mutazioni e alle contorsioni dello Stato sovrano, che non può più pensare di giocare la partita da solo, come ci hanno dimostrato in Europa la crisi economica, prima, quella pandemica, poi, e, più recentemente, la crisi energetica e la lotta per difendere le democrazie messe in pericolo dalla guerra e dalla sfida delle autarchie. Lavorare sia a livello politico che economico per scrostare il concetto di “patria” dalla retorica e dalle derive nazionaliste diventa un modo per non disperdere il valore della rappresentanza politica e dell’identità collettiva, senza cui difficilmente potremmo parlare ancora di comunità solidali o socialmente evolute.

La luna di Kiev

Ecco perché, nella ricerca di un nuovo possibile equilibrio tra forme diverse di patriottismo – municipale, nazionale o europeo – si potrebbe aprire la strada per una nuova solidarietà internazionale a fronte di scenari insanguinati dall’orrore delle guerre e di tante “patrie” vilipese dalla violenza e dalla sopraffazione. Potrebbe venirci in soccorso la leggerezza di Gianni Rodari, tra rigurgiti terzomondisti “senza se e senza ma” e nuovi guerrafondai favorevoli a una pace a tutti i costi. “Filastrocche in cielo e in terra” sarebbe il racconto ideale delle nostre “intime patrie”, per nulla infantili. Guarderemmo allora con uno sguardo accorato alla “luna di Kiev” come se fossimo davvero gli “occhi” di tutti i popoli del mondo: Chissà se la luna / di Kiev / è bella / come la luna di Roma. / Chissà se è la stessa / o soltanto sua sorella… / “Ma son sempre quella! / – la luna protesta – / non sono mica/ un berretto da notte / sulla tua testa! / Viaggiando quassù / faccio lume a tutti quanti, / dall’India al Perù, / dal Tevere al Mar Morto, / e i miei raggi viaggiano / senza passaporto”.