Sono mamma da meno di due anni. Informazione che mi serve per dire: il più della mia vita l’ho passato osservando la maternità dall’esterno, facendomene un’idea, formandomi aspettative.

Fortunatamente, per come sono strutturata, non l’ho mai idealizzata, pur avendola fortemente desiderata. L’idealizzazione, da osservatrice esterna, mi è sempre sembrata pericolosissima e allo stesso tempo facilissima: tutto intorno a noi ci dice quando sia bella/importante/imprescindibile l’esperienza della generazione, ma anche della cura, dell’educazione di un altro essere umano. Non c’è niente di più bello.

La mamma cammina per strada avvolta in una nuvola rosa (colore che dice “femmina” ma dice anche “amore”, “serenità”, “dolcezza” se guardiamo all’immaginario che cerco con queste righe di abbattere). Il periodo della gravidanza rinforza questa immagine, almeno così è stato per me. Durante i mesi di attesa l’amore che mi circondava (non l’amore che io emanavo, ma quello che ricevevo) era talmente intenso da farmi male. Credo che quella specie di “dolore” che provavo nascesse proprio dalla lotta innescata tra l’amore che ricevevo e che tentava (senza dolo) di promettermi un impossibile futuro di felicità e amore perpetui e la mia volontà di non cedere alle lusinghe dell’idealizzazione del ruolo materno.

I mesi dell’attesa mi sono serviti a mettere le fondamenta della madre che sarei diventata. Funziona così, si chiama “maternità interiore” ed è «un processo di sviluppo dell’identità femminile e un processo di elaborazione di rappresentazioni mentali. È il luogo delle fantasie, delle emozioni, dei desideri, dei sogni, è la residenza di legami, di affetti, di relazioni nuove» (Ferrara Mori, 2006). Nel mio caso, dicevo, se dovessi sintetizzare quel lavoro di “costruzione” in una sola frase, direi che la gravidanza mi è servita a convincermi che avrei potuto, anzi dovuto, vivere la maternità “a mia immagine e somiglianza” sforzandomi di non assecondare ciò che gli altri si sarebbero aspettati da me-madre e allo stesso tempo di evitare di cadere nella trappola del senso di inadeguatezza rispetto a quelle stesse aspettative esterne, non consentendo loro cioè di diventare parametro di auto-giudizio.

Ciascuna madre in fondo desidera questo, ma spesso secondariamente ad altri auspici, come quello di essere più semplicemente una “buona madre”, ma a me quello pareva già un parametro fuori scala.

E così sono diventata madre, a mezzogiorno di un dì di novembre, tramite un taglio cesareo che toglie un po’ di poesia. Quando lo staff che ha permesso ai miei bimbi di nascere mi ha detto “sei stata bravissima” ho compreso che quello era l’ultimo atto di tutto quell’amore che avevo meritato in quanto donna gravida, portatrice di vita. Essendo l’ultimo, mi sono permessa, complice l’anestesia, di essere del tutto sincera, e respingere al mittente quell’attestato, immeritato, di stima, dicendo “ma se avete fatto tutto voi!”.

Dicevamo della nuvola rosa. No, i miei bimbi adorati non sono venuti al mondo tra le braccia di una donna che li aveva sognati come si sogna un nuovo amore. I miei bimbi sono nati tra le braccia di una donna che li ha desiderati come si desidera un buon voto o una promozione al lavoro. Non saprei dettagliare meglio questo aspetto, ma posso dire che l’ho ravvisato anche in altre donne a me simili per area socio-culturale. La maternità come performance, per trovare un titolo adeguato.

Una frase di John Medaille diventata popolare sui social recita: “Ci si aspetta che le donne lavorino come se non avessero figli e allevino come se non avessero lavoro”. Performance come dicevo. Quindi una dovrebbe essere esperta di trasformazione digitale o di calcoli renali o di motori a idrogeno nella stessa misura in cui conosce i migliori metodi di allattamento/svezzamento/depannolinamento. Se sei in gamba poi la pretesa è ancora più pressante (se avevi una buona media a scuola, se sei efficiente sul lavoro, perché non dovresti essere una mamma super preparata?). Parimenti ci si aspetta che la tua prole a 5 anni faccia le addizioni e sappia un paio di lingue almeno, altrimenti significa che sei pigra.

Vietato quindi farsi aiutare o trovare scorciatoie o mezzi/strumenti/metodi non tanto che possano non essere il meglio per i bimbi e le bimbe, ma che ti facciano apparire come una che cede alla comodità o alla voglia che la propria vita assomigli il più possibile a quella di prima. Non solo per non deludere gli altri, ma in primis te stessa. Bisogna soffrire, per essere una buona madre. Consciamente pensi “mio figlio/mia figlia prima di tutto”. Inconsciamente dici “sono brava”. Che è la cosa più importante.

Troppo poco spesso ci dicono infatti che per far crescere dei figli felici occorre che le madri siano per lo meno serene. E che la retorica del sacrificio è valida e preziosa solo in situazioni specifiche e puntuali, ma per l’ordinaria amministrazione è tossica. Anzi, adesso che ci penso l’abolirei dal dizionario della madre. Se salto la lezione di tessuti aerei (ipotizzo, non sono così atletica) perché devo accompagnare mio figlio alla partita (spero di uno sport indoor, per non congelare) non mi sto “sacrificando”. Sto evidentemente prendendo la scelta pragmaticamente più sensata. Intendo dire: se ci fosse anche mezza alternativa in cui nessuno deve fare rinunce o salti mortali (mio figlio mi implora di andare col suo compagno, una nonna non vede l’ora di accompagnarlo, mio marito ha il pomeriggio libero) quella sarebbe la scelta giusta. Se non c’è questa seconda opzione, qualcuno dovrà cambiare i propri piani. “Cambiare i propri piani” is the new “fare sacrifici”. Non vi sembra molto più laico? Va da sé che padre e madre li cambieranno in maniera ragionevolmente paritaria. Nessuno si sacrifichi su nessun altare. Se vogliamo abbattere la denatalità cambiare questa narrazione può essere un piccolo contributo.

[Se lascio il lavoro per badare ai bambini invece, o è una libera scelta o è un errore del sistema in cui siamo inseriti. Ma questo merita una riflessione a parte che non farò qui].

Perché sì, c’è la retorica della “nuvola rosa” che fa tanto festa della mamma con i cioccolatini e merchandising vario che recita “sei la mamma migliore del mondo” (i miei figli sono troppo piccoli per essere così bugiardi), ma c’è anche quella opposta, che si ripropone il sacrosanto compito di portare alla luce “il lato oscuro della maternità”, ma lo fa esasperandolo al limite del grottesco. Avete presente lo stereotipo della mamma sfatta, precocemente invecchiata, sola e che ha rinunciato a tutto per il bene della famiglia? Quella delle notti insonni e del bambino che non mangia. Quella del “non posso nemmeno andare a farmi una piega perché lui/lei vuole stare solo con me”, fingendo disappunto e celando compiacimento. Compiacimento sì, perché raccontare delle nostre fatiche di madre ci piace spesso oltre modo. Più dell’umano cercare conforto e non col legittimo scopo di chiedere aiuto.

A volte lo facciamo perché ci aspettiamo una medaglia. Ecco, l’ho detto.

Perché non sei una vera madre se non provi un po’ di fatica, allo stesso modo in cui non puoi ritenerti brava se usi una pappa pronta al posto delle verdure dell’orto.

Performance e fatica. Amore incondizionato e nuvola rosa. E in mezzo tu, che vuoi amare chi è nato da te senza smettere di amare te. Che cerchi il tuo equilibrio. Che vorresti vedere i tuoi figli felici insieme a te, e non a tuo discapito. Che non giochi nel campionato delle mamme di serie A, e se hai quella fortuna ti batti per la salvezza, ché lo scudetto non è in discussione, perché non hai nemmeno allattato al seno, te tapina.

A te che sei davvero nella nuvola rosa perché la maternità ti fa sentire completa come nient’altro, ringrazia ogni giorno per la tua fortuna.

A te che fai davvero fatica, non esitare a chiedere aiuto.

A te che desideri diventare madre senza riuscire, ti sono vicina.

Alla mia vicina del piano terra che mi ripete quanto il mio viso le sembri riposato, pur avendo due gemelli: lo sa che la prima volta sembra un complimento, ma via via che lo ripete assomiglia sempre di più a un’accusa di negligenza?

A te che ti sei trovata almeno in alcune di queste righe, buona festa della mamma, minuscolo, perché ti voglio bene e per questo desidero che tu non senta il peso di alcuna aspettativa.