Mai come in questo tempo infausto abbiamo sentito la mancanza «materiale» degli altri. Ormai non ci bastano più neanche le relazioni virtuali, abbiamo bisogno della loro presenza. Abbiamo cominciato a parlare da finestra a finestra, da terrazza a terrazza, anche con quelli che fino all’altrieri ci erano dei perfetti sconosciuti, che mai avevamo neanche degnato di un saluto. Abbiamo fatto il tifo commossi per medici e infermieri, giornalai e fruttivendoli, volontari e carabinieri. Ci siamo ricordati con apprensione di nonni e nonne rinchiusi nella casa di riposo che neanche sapevamo ci fosse, magari poco lontano da noi. Non solo: abbiamo capito ancora meglio che, come aveva detto papa Francesco quella volta in una piazza San Pietro deserta e battuta dalla pioggia, «nessuno si salva da solo».

E così non possiamo non incontrarci! Questo vale per tutti, per chi crede come per chi non crede.

In quanto poi a ritornare in chiesa è un altro termine di riferimento e di rapporto.

Va detto, per onestà, che il fenomeno delle chiese vuote precede di gran lunga questa pandemia anche se questo tempo, sicuramente, ha messo ancor più in evidenza la progressiva disaffezione dal partecipare alla liturgia.

Certamente ha influito la paura di un possibile contagio, il contingentamento delle presenze, la “fluidità” di partecipazione in streaming da casa.

Una necessità che sta diventando un’abitudine. Una fede che rischia di accontentarsi del virtuale trascurando il reale.

Prima però di scomodare il relativismo spirituale o il sincretismo religioso, più semplicemente è opportuno porsi qualche domanda: le nostre comunità parrocchiali sono accoglienti? Le nostre liturgie sono vive? L’ars celebrandi, che interessa in modo decisivo, anche se non esclusivo, i presbiteri, a causa della loro presidenza liturgica, è orientata a ottenere una partecipazione adeguata da parte dell’assemblea a ciò che si celebra, a una «partecipazione attiva» di tutti i credenti, come ci ricordava il Concilio Vaticano II, o tiene conto di più del cerimoniale che spesso risulta essere staccato, lontano, sganciato dalla gente, anche se aulico, solenne, raffinato? Le nostre comunità parrocchiali pongono attenzione reale

ai bisogni di ciascuno (At 2,45) o sono il palcoscenico per esibirsi? Vivono una sinodalità “dal basso”, come ci ricorda papa Francesco, o soltanto una modalità che va attuata secondo l’andazzo del tempo, ma con lo scopo di mantenere il proprio ruolo, senza porsi sullo stesso piano degli altri?  Sono alcune tra le tante domande che le donne e gli uomini del nostro tempo si pongono di fronte a un cristianesimo stanco e sbiadito.

Proiettare all’esterno le cause dei problemi serve solo a mantenere nel torpore le nostre coscienze, a produrre un “accanimento terapeutico” senza cambiare le cose, anzi, creando ancor più un allontanamento dalla Chiesa.

Le responsabilità della mancata partecipazione alla vita ecclesiale sono da cercare, innanzitutto, tra quelli (come noi) che stanno dentro, non a quelli che stanno fuori. Non possiamo e non dobbiamo ridurre il messaggio di fede a una semplice visione politica o a una celebrazione ripetitiva di riti senz’anima. Non possiamo e non dobbiamo nasconderci dietro un alibi di amarezza, di delusione e di sconforto perché non si trova più il cuore, la coscienza, la bellezza di vivere insieme lo Spirito di comunione, di Chiesa.

Piuttosto è il tempo della profezia, è il tempo per uscire dal sonno, spirituale e intellettuale, è il tempo perché la fede ritorni ad essere passione per la vita, è il tempo per ritornare ad amare la Parola e le parole, la Bibbia e la storia, il Concilio e la Costituzione. Sì, si ritornerà in chiesa.