Da un anno a questa parte, qualunque sia l’argomento di cui si voglia parlare, è impossibile non fare riferimento alla pandemia che dal 2020 ha sconvolto le nostre vite. E questo vale anche se il tema è l’Europa.

Da subito è stato chiaro che il virus ha accelerato dei processi che erano già in atto, soprattutto in ambito sociale, politico e geopolitico. Uno di questi era l’evoluzione della globalizzazione, che è stata messa a nudo più ancora di quanto già non lo fosse. Sono emerse le profonde disuguaglianze e differenze tra i singoli Stati, e spesso anche all’interno di essi.

I primi mesi dell’emergenza sono stati caratterizzati da un profondo senso di disorientamento e molte nazioni hanno dato risposte molto diverse e spesso contradditorie rispetto ai paesi confinanti (basta pensare alle chiusure delle frontiere delle prime settimane di emergenza).

Quando però arriva la tempesta, il rischio maggiore lo corrono le imbarcazioni più piccole, soprattutto se restano da sole ad affrontare le difficoltà. Ed è il rischio che stavano correndo i paesi più piccoli. L’Unione Europea si è trovata quindi davanti ad un bivio. Lasciare che ogni Stato affrontasse la pandemia per conto suo, magari dentro un quadro governato dalla competizione (per esempio nell’acquisto dei vaccini, come stava succedendo all’inizio). Oppure farsi protagonista riscoprendo il senso più profondo del suo essere, promuovendo la cooperazione tra Stati come fondamento stesso del progetto di sovranità europea.

Il primo fondamentale passo in tal senso è stato l’accordo raggiunto tra tutti i leader dei paesi europei per creare un debito comune per finanziare la ripresa delle nostre economie di fronte alla crisi nata dal Covid; quell’accordo che ha poi preso il nome di Recovery Fund o Next Generation EU. L’altra mossa importante è stata quella di porsi come centrale di acquisto per trattare direttamente con le Big Pharm per i vaccini, non lasciando che ogni singolo stato trattasse quantità e prezzi, cosa che avrebbe svantaggiato soprattutto le nazioni più piccole.

Ma questi non sono stati affatto passaggi rapidi e immediati. Si è perso tempo prezioso. Ma in questi anni abbiamo imparato che non è facile mettere d’accordo 27 Stati. Forse è aumentata anche la consapevolezza che le sfide globali che il nostro tempo ci pone, non possono essere affrontate dai singoli stati, ma richiedono cooperazione e collaborazione.

E l’Unione Europea è uno strumento formidabile da questo punto di vista. Sicuramente ancora troppo lento, diviso e con una governance da rivedere (a partire dal diritto di veto).

Ma una “casa comune” che sembra uscire rafforzata da questi anni caratterizzati prima dalle pulsioni populiste e sovraniste e poi dalla pandemia. E la cosa la si percepisce anche nel nostro (spesso misero) dibattito politico. L’impressione è che in questi ultimi mesi non si parli più di Europa con un’accezione prevalentemente negativa. Purtroppo l’UE è stata spesso usata come capro espiatorio, come causa e origine di tutti i nostri mali (“tutta colpa dell’euro”, “ce lo chiede l’Europa”). Forse il merito sarà anche delle scelte coraggiose e lungimiranti di questi ultimi mesi? Può darsi. Aggiungiamo poi il fatto che negli ultimi (quasi) due anni il Governo ha avuto uno spirito europeista senz’altro più marcato rispetto ai mesi del “Conte1”.

Forse finalmente sta tornando ad aumentare il senso di appartenenza alla nostra Europa. È una sensazione, ma soprattutto un auspicio. Paradossalmente un contributo in tal senso è arrivato all’inizio di aprile dallo sgarbo che Erdogan ha riservato alla Presidente Ursula von der Leyen. Per una volta ci siamo sentiti indignati, irritati e anche offesi, non come italiani, ma come europei. Forse un (involontario) contributo per rafforzare quel senso di appartenenza all’Europa che speriamo torni a crescere in tutti i cittadini di questo grande progetto di integrazione e cooperazione.