Era già tutto scritto. Dal giorno in cui il presidente della Repubblica aveva indetto le elezioni. Con il Rosatellum non poteva che finire così. I flussi di voto confermano che il perimetro del centro-destra è rimasto quello consueto ma a cambiare sono stati semplicemente i rapporti di forza fra i partiti della coalizione. Senza un cambiamento dell’offerta politica, la domanda non poteva che restare inalterata. Spianando la strada a Giorgia Meloni, prima donna presidente del Consiglio in Italia. Che lezioni possiamo trarne?

Prima lezione. Se si fosse votato con una legge proporzionale, nessuno avrebbe avuto la maggioranza per governare, salvo trovarne una in Parlamento. Perché, pur sollecitato da molte parti e avvertito che, per la logica intrinseca della legge elettorale, sarebbe potuta finire molto male, il Pd non ha provato a cambiarla? Tra l’altro aveva solennemente subordinato proprio alla riforma del sistema elettorale l’appoggio alla sciagurata riforma costituzionale pentastellata, che ha portato a dimezzare il numero dei parlamentari. La retorica del bipolarismo su cui si è fondata la Seconda Repubblica – che alla prova dei fatti non ha mai funzionato davvero – ha impedito di guardare in faccia la realtà. Già alle elezioni del 2018, che hanno portato al potere per la prima volta non uno, ma due partiti populisti, non c’erano due schieramenti, ma tre, senza contare partiti e partitini a sinistra e a destra di quelli maggiori. A ben vedere è così anche oggi, perché al centro-destra si contrappongono due, se non tre, opposizioni.

Seconda lezione. Il funzionamento del sistema elettorale era palese e i sondaggi fin troppo precisi (i leader politici li sapevano a memoria anche nei giorni in cui noi cittadini non potevamo conoscerli): chi si allea vince, chi non si allea perde. Il centro-destra – se ancora così possiamo chiamarlo – un minuto dopo la caduta del governo Draghi aveva già fatto l’accordo sui seggi da “spartirsi”. Una macchina perfetta per vincere le elezioni (molto meno per governare: vedremo presto se si ripeterà quanto successo negli anni del cavaliere imperante).

Nel campo opposto, invece, hanno iniziato col dire: «non con quello, che ci fa perdere voti»; «mai con quelli che hanno fatto cadere il governo»; «non con chi pensa di fare un accordo elettorale sia con chi gli sta alla destra che con chi gli sta alla sinistra», dimenticando che bisogna “scegliere”. Preso atto che l’accordo con Azione non avrebbe cambiato gran che rispetto al risultato del 25 settembre, il Pd – commenta uno dei più lucidi politologi italiani come Mauro Calise – «in due settimane ha stravolto la sua strategia. E si è arroccato nel suo fortino. Lasciando alla destra il governo, a Calenda la frontiera centrista, e ai Cinquestelle le praterie meridionali».

Non era certo facile, nel centro-sinistra, “sommare mele e pere”. Come, invece, s’è fatto senza scrupoli dall’altra parte, anche se solo in chiave elettorale, perché, già nel fare il governo, le distanze, per esempio sulla guerra e sulla collocazione internazionale, si sono subito rivelate siderali. Ma per tentare almeno di pareggiare, non si sarebbe potuto fare altrimenti. “Scegli!”, si sarebbe dovuto ricordare a Enrico Letta: se davvero si fosse voluta impedire l’ascesa per la prima volta al governo di un partito postfascista non c’era alternativa. Lo dicevano, freddamente, numeri e sondaggi. Perché si è “scelto di non scegliere”?

È la terza lezione. «Lo sapevano, lo sapevano tutti che sarebbe finita così» spiega Calise. «Ma non erano in condizione di evitare il precipizio in cui sono caduti. Non certo per i motivi ideali che sono stati addotti. Ma per una ragione più banale e, ovviamente, brutale. Perché non c’è nel Pd un leader capace di virare – se necessario – bruscamente e imporre le proprie scelte all’oligarchia che continua da trent’anni a gestirne l’immobilismo».

È questo il problema, grande come una casa, che le elezioni, ancora una volta, consegnano a chi le ha perse. «In un sistema politico in cui – da un quarto di secolo – si vince o si perde a seconda del leader che metti in campo, solo il Pd ha continuato a difendere il tabù della direzione collegiale. C’è sempre un noi di copertura, una responsabilità impersonale (che, con sottile ipocrisia si mimetizza nella retorica del definirsi “una comunità” ndr) al posto del nome e del cognome con cui gli altri partiti si rivolgono all’elettorato». I cui volti sono noti: Berlusconi, Salvini, Meloni e, ultimi in ordine di apparizione, Calenda e Conte.

So di toccare il nervo scoperto della “diversità” della sinistra, che stigmatizza, a ogni piè sospinto, “l’uomo solo al comando” di turno, retaggio di una storia che rifugge il carisma, soprattutto quando si trasforma in quel “culto della persona”, che aveva raggiunto la tragedia nella deriva parossistica nel fascismo. Ma, oggi, di leader abbiamo bisogno come il pane, soprattutto a fronte della recessione delle democrazie e della fatica di trovare, in giro per l’Europa, statisti in grado di indicare la rotta nella tempesta. Basti notare come Macron e Scholz si siano aggrappati alla leadership di Mario Draghi, che non ha smesso di ricordare a un’Unione smarrita di fronte alla guerra, fino all’ultimo Consiglio europeo, che ci si salva solo insieme, pena la sconfitta nella sfida con le autocrazie.

La “democrazia del leader” – affermatasi dopo la crisi dei grandi partiti di massa, che hanno avuto il merito di inglobare le masse popolari nel governo democratico ma hanno ceduto il passo a formazioni più leggere, alle prese con la liquefazione dell’elettorato e di un’opinione pubblica intercettabile solo attraverso un sistema mediatico, la cui logica impone la personalizzazione delle leadership e la tendenza a un “permanent campaigning” – «non è una sindrome del Belpaese». Ma, fa notare ancora Calise, «è ciò che accade in tutto l’Occidente e in buona parte dell’Oriente. Tranne che nel Pd». Dove, con la liturgia congressuale, «staranno tutti attentissimi a non eleggere un vero capo. Ma un nuovo caproespiatorio». Questo è il nodo che non si può eludere. Verrà il giorno in cui si imparerà dai propri errori?