Facciamo luce sui 5 quesiti attraverso le ragioni del SI e le ragioni del NO

Cominciamo col dire che si tratta di cinque referendum abrogativi ex art. 75 Cost. ciò significa che al corpo elettorale viene proposta l’abrogazione (eliminazione) totale o parziale di alcune leggi/frammenti di norme. Se dovesse “vincere il si”, le norme oggetto di referendum sarebbero espunte dall’ordinamento giuridico. Affinché i referendum possano essere considerati validi è necessario raggiungere il quorum, cioè una soglia di votanti, fissata nella maggioranza degli aventi diritto al voto (il 50%+1).

Vediamo, nello specifico, quali saranno le materie referendarie:

  1. Elezione dei membri togati del CSM
  2. Valutazione della professionalità dei magistrati
  3. La “separazione delle carriere” dei magistrati: funzioni giudicanti e requirenti
  4. Abrogazione del decreto “Severino” (d.lgs. 235/2012)
  5. Abrogazione della custodia cautelare in determinati casi

 

  1. Elezione dei membri togati del CSM

Il Csm (Consiglio Superiore della Magistratura) è l’organo di autogoverno dei magistrati. È presieduto dal Capo dello Stato ed è composto da membri togati (i magistrati) e da membri c.d. “laici”, non togati, eletti dal Parlamento in seduta comune. Oggi un magistrato che volesse presentare la propria candidatura come membro del Csm, dovrebbe ottenere dai propri colleghi dalle 25 alle 50 firme.

Le ragioni del SI: Eliminando del tutto i presentatori delle candidature, si opterebbe per un sistema di candidature individuali libere, prive di ogni preventivo supporto o sostegno da parte delle correnti interne alla magistratura (alcune più centriste, altre più vicine alla “destra” e altre alla “sinistra”). Così, secondo i sostenitori del referendum, si andrebbe ad eliminare il “pericolo del correntismo” e della lottizzazione delle nomine.

Le ragioni del NO: questo piccolo aggiustamento non consentirebbe di limitare il peso delle aggregazioni collettive in seno al Csm e il rischio di derive carrieristiche. Come è stato osservato: “non c’è legge elettorale che non preveda la presentazione di candidature in base a raggruppamenti”. D’altronde è la Costituzione stessa (art. 4) a riconoscere ai partiti una funzione di necessaria mediazione nel processo di selezione democratica, perché non dovrebbe valere la stessa cosa per le “correnti”?

  1. Valutazione della professionalità dei magistrati

I magistrati vengono valutati ogni quattro anni dal Csm sulla base di pareri (motivati, ma non vincolanti) espressi dal Consiglio direttivo della Cassazione e dai consigli giudiziari; questi ultimi sono organi territorialmente competenti dotati di una composizione mista: accanto alla quota di membri togati (i magistrati), ve n’è una “laica” composta da avvocati e professori universitari in materie giuridiche. Il loro apporto nell’ambito dei Consigli Giudiziari, tuttavia, si limita a questioni di natura generale e organizzativa. Avvocati e professori, infatti, sono esclusi dalle valutazioni relative alla professionalità dei magistrati. Il Referendum chiede agli elettori di abrogare la norma che esclude i componenti laici dalla possibilità di esprimere pareri sui magistrati.

Le ragioni del SI: i magistrati verrebbero valutati sotto il profilo della professionalità anche da membri non togati oltre che dai loro colleghi. Riconoscendo la possibilità ai membri laici di esprimere un parere sull’operato delle toghe, queste si affrancherebbero da giudizi coperti da una patina di autoreferenzialità. Sarebbe auspicabile riconoscere ai membri laici la possibilità di esprimere un parere sul comportamento del magistrato che, forte del giudizio proveniente dai soli pari, potrebbe attuare condotte ostili abusando della propria funzione.

Le ragioni del NO: l’abrogazione della norma che impedisce ai membri laici di esprimere un parere sul magistrato creerebbe un vulnus alla terzietà del giudice. Avvocati e magistrati interagiscono quotidianamente nelle aule di giustizia. Non è difficile immaginare come il parere espresso da un avvocato su un magistrato potrebbe finire col privare quest’ultimo della necessaria serenità di giudizio.

  1. La “separazione delle carriere”

Benché non sia corretto parlare di carriere, bensì di funzioni (“I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”, art. 107 Cost.), l’annosa questione è relativa alla necessità di tenere separata la funzione giudicante (del giudice, chiamato a giudicare cioè ad emettere la sentenza ed è figura super partes) da quella requirente (del Pubblico Ministero che coordina le indagini ed è una parte del processo). Attualmente i magistrati, nel corso della loro carriera professionale, possono passare da una funzione all’altra con dei limiti. Il referendum chiede di abrogare questa possibilità.

Le ragioni del SI: ad inizio carriera ciascun magistrato dovrebbe scegliere la funzione giudicante o quella requirente, senza possibilità di passare dall’una all’altra, garantendo così una maggiore equità e indipendenza.

Le ragioni del NO: il referendum abrogativo non è il mezzo più adatto per una riforma così significativa. La Costituzione, rivolgendosi alla “magistratura” in generale, detta principi e regole validi per tutti i magistrati, indipendentemente dal fatto che siano giudici o pubblici ministeri. Sarebbe dunque necessaria una modifica del Titolo IV della Costituzione. Il cambio di funzione andrebbe considerato un motivo di arricchimento per l’esperienza di un magistrato: al contrario, l’isolamento in cui verserebbe il Pubblico Ministero, lo allontanerebbe sempre più dalla cultura della giurisdizione “condannandolo” per sempre ad una monotematica cultura dell’indagine e dell’accusa.

  1. Abrogazione del decreto “Severino” (d.lgs. 235/2012)

Il decreto Severino – dal nome della Ministra della Giustizia del Governo Monti – prevede il divieto di ricoprire incarichi di governo, incandidabilità e ineleggibilità alle elezioni politiche e amministrative per coloro che hanno commesso determinati reati. In caso di condanna in via definitiva si prevede la decadenza di tali cariche anche se i reati sono stati commessi prima dell’entrata in vigore del decreto.   Lo scopo del decreto è quello di limitare la possibilità di candidare ed eleggere persone condannate. In particolare, in caso di condanna a più di due anni di carcere per reati di mafia o terrorismo, per reati contro la pubblica amministrazione (peculato, corruzione o concussione) e per delitti non colposi per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore a 4 anni, saranno precluse le cariche di deputato, senatore e membro del Parlamento Europeo.

In caso di condanna non definitiva, il decreto prevede la sospensione dalla carica in via automatica per un periodo massimo di 18 mesi.

Le ragioni del SI: il decreto Severino è troppo afflittivo; la sua abrogazione permetterà anche ai condannati in via definitiva di candidarsi o di continuare il proprio mandato.

“Nello specifico, la decadenza automatica di sindaci e amministratori locali condannati ha creato finora «vuoti di potere» e ha portato alla sospensione temporanea dai pubblici uffici di innocenti poi reintegrati al loro posto”.

Sarà altresì cancellato l’automatismo della sospensione.

 

Le ragioni del NO: Chi si oppone all’abrogazione sostiene che il Decreto Severino rappresenta uno dei più ampi interventi normativi di contrasto alla corruzione degli ultimi anni. Se il decreto Severino venisse abrogato, oltre a permettere a condannati di ricoprire cariche pubbliche, si determinerebbe il ritorno alla situazione precedente al 2012: saranno i giudici ad avere il potere di decidere, caso per caso, discrezionalmente, se dinnanzi ad una condanna sia necessario applicare o meno, come pena accessoria, anche l’interdizione dai pubblici uffici. Il che potrebbe soltanto acuire lo storico dissidio tra politica e magistratura.

 

  1. Abrogazione della custodia cautelare in determinati casi

 
La custodia cautelare è disciplinata dall’art. 274 del codice di procedura penale. La norma elenca i casi in cui è possibile applicare la custodia cautelare: pericolo di fuga, inquinamento delle prove o quando sussiste il concreto e attuale pericolo che la persona «commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede» (pericolo di reiterazione). Soltanto in questi casi l’applicazione della misura è giustificata e dunque solo in questi casi è legittimo incidere sulla libertà personale dell’imputato prima della sentenza.

Il quesito referendario interviene per limitare questi casi.

 

Le ragioni del SI: il mero “pericolo” di recidiva per i reati meno gravi non giustifica il ricorso alla misura cautelare: questa diviene nei fatti un escamotage per imporre – ante iudicium – una limitazione della libertà personale, trasformando la custodia cautelare da strumento di emergenza “eccezionale” e cautelare ad un vero e proprio meccanismo abusivo e automatico.

 

Le ragioni del NO: l’articolo 274 stabilisce già dei limiti all’applicazione delle misure cautelari. Il quesito referendario erroneamente si identifica soltanto con la misura della carcerazione preventiva. Ma l’abrogazione comporterebbe una limitazione dei casi in cui sarebbe legittimo applicare anche altre misure come l’obbligo di presentazione alla polizia, l’obbligo di allontanamento dalla persona offesa o il divieto di avvicinamento dai luoghi abitualmente frequentati dalla vittima. Si tratta di misure che incidono in misura minore sulla libertà dell’individuo ma che soddisfano egualmente esigenze preventive (soprattutto in reati contro soggetti deboli: stalking, maltrattamenti).