Se la guerra ridisegna domanda e offerta politica
«Tutto cambia perché nulla cambi» diceva cinicamente il nipote del principe di Salina, inaugurando così il fenomeno tutto italiano del “gattopardismo”. Almeno per una volta i termini si sono rovesciati e il “nulla cambia” è diventato foriero del “tutto cambi”. Lo abbiamo visto nell’elezione del Capo dello Stato. Dopo lunghi giri di valzer e un’infinità di scivoloni di chi sognava d’esser il king maker, le lancette sono tornate al punto di partenza: Sergio Mattarella presidente della Repubblica e Mario Draghi presidente del Consiglio.
Per fortuna, verrebbe da dire, considerata la tragedia bellica piovuta, inattesa, sull’Europa. La riconferma di Mattarella e Draghi, oltre a far tirare un sospiro di sollievo agli italiani e alle cancellerie europee, indica anche la strada della possibile evoluzione della politica italiana. Dopo l’ingresso nei palazzi del potere degli “onesti” e l’innaturale alleanza gialloverde, il sistema politico si è avvitato intorno a un apparente congelamento del rapporto tra domanda e offerta politica. Nonostante l’elettorato sia più liquido che mai, nella testa delle forze politiche è come se fossimo rimasti nel pieno della prima Repubblica, con i voti blindati in blocchi monolitici. Leggere il mercato politico in questo modo, significa pensare che gli orientamenti di voto siano immodificabili. La proposta del “campo largo” è stata questo: il Pd, almeno fino a prima di questa guerra, considerando l’elettorato italiano (la domanda) in maggioranza di destra, riteneva necessario per vincere le elezioni sommare tanti pezzettini, anche molto dissimili, per sperare di diventare maggioranza (l’offerta): un centro sinistra con all’interno i Cinque stelle. Ma, in politica, l’aritmetica vince solo nel breve periodo, come ha mostrato l’alleanza Lega-M5S, esplosa in un amen.
Forse è tempo di cambiare l’ordine dei fattori. Non è che agendo sull’offerta politica non si riesca a innescare un cambiamento anche sulla domanda? Per essere più espliciti: in un Paese in cui la destra di Giorgia Meloni, che non ha ancora la classe dirigente per governare l’Italia, è arrivata alla soglia fisiologica massima, non riuscendo a tagliare i ponti con le formazioni più torbide alle sue estreme, e in cui la Lega di Salvini è nettamente spaccata tra chi segue (ancora per quanto?) un leader che non ne ha più imbroccata una e una classe dirigente moderata che governa regioni e comuni, è così impensabile che un progetto politico che metta insieme l’arco europeista, socialista, riformista e liberale (in gran parte già associato nel governo Draghi) non possa risultare maggioritario e vincente nel 2023?
La domanda, ovviamente è retorica, e i tornanti della storia in cui è finita l’Italia con il resto dell’Europa – sfidata a difendere la propria libertà e tutti i valori della democrazia – non fanno che rafforzare questa suggestione. Draghi non scenderà sicuramente in campo come, improvvidamente, fece anni prima Mario Monti. Ma, intorno alla sua leadership europea, potrebbe costituirsi, prima o dopo le elezioni, un’offerta politica capace di candidarsi alla guida del Paese, per concludere la missione avviata con il Pnrr e restituire un profilo strategico internazionale al nostro Paese. Quelle che potrebbero sostenerlo sono le stesse forze che, senza esitazione, hanno saputo chiamare le cose con il loro nome subito dopo lo scoppio della guerra: l’aggressore e l’aggredito, la vittima e il carnefice. E non sono mai state a libro paga della Russia (o della Cina). Qualcuno, per restare in sella e fare parte di questo progetto, si sta rimangiando tutto quanto ha detto e fatto fino poco tempo fa. Lo giudicheranno gli elettori. Qualcun altro, passando dalle felpe alle T-shirt non ha ancora capito che il vento è cambiato. Non è più il mormorio leggero della cronaca politica spicciola giocata sui social della bestia ma è il ciclone impetuoso della storia. Che chiede persone e progetti in grado di governare la barca.
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