Sindaco della città che sta cambiando pelle
Amministrare una città è faticoso. Governarla ancora di più. Perché significa imprimere, nell’azione di pianificazione e di gestione del territorio, una direzione che, all’inizio, solo il politico vede. La rivendicazione di aver saputo offrire una visione alla città è la cifra dei due mandati di Emilio Del Bono come sindaco di Brescia, almeno a giudicare dalle sue parole, che paiono quasi tracciare un bilancio della sua esperienza a palazzo Loggia.
«Potrei fare l’elenco della spesa, delle opere pubbliche che abbiamo fatto, delle infrastrutture sportive, dei monumenti, delle strade, dei marciapiedi, delle bonifiche» afferma. «Ma queste cose si capiscono solo se sono inserite dentro un disegno più ampio. Perché abbiamo fatto determinate scelte urbanistiche, come il non consumo di suolo, la riqualificazione del patrimonio edilizio esistente, la rigenerazione urbana, l’incentivazione di nuove funzioni pubbliche dentro il territorio periferico? Perché c’era un disegno generale» spiega il sindaco, richiamando anche le nuove vocazioni della città. «Non più una città-fabbrica, ma una città dei servizi, la città della cultura e del turismo, della sanità e dell’università, la città dell’accoglienza. Posso dire di aver plasmato una visione strategica e di aver provato a realizzarla con la mia squadra».
Come ha preso corpo questo progetto? All’inizio non è mancata la fatica di spiegarlo, perché il disegno non si sarebbe potuto tradurre subito in realizzazioni concrete. Finché i cittadini non vedono i risultati, non capiscono a che cosa serve una variante al Pgt. Né immaginano che cosa significhi un piano della mobilità sostenibile finché non si concretizza in zone a traffico limitato, pedonalizzazioni, mobilità pubblica, bike sharing, piste ciclabili.
Per non parlare delle politiche culturali. Non è stato facile far capire che sistemare la Pinacoteca o mettere a posto il castello faceva parte di un disegno più grande per il futuro della città. Adesso che i cittadini hanno colto il quadro d’insieme, siamo decisamente più credibili rispetto a chi, in modo frammentario, elenca obiettivi tra loro incoerenti. La differenza è tutta qui: siamo riusciti a far capire ai bresciani che c’è un disegno globale sulla città e questo disegno, tutto sommato, piace.
A pochi mesi dalle elezioni amministrative, a chi consegna questo progetto di città? Questo percorso non l’ho fatto da solo. L’ho fatto con una squadra di assessori, con un gruppo di amministratori delle partecipate e delle controllate. L’ho fatto grazie anche a una macchina comunale che ha dei dirigenti e funzionari di livello. Un disegno strategico, che va preservato e portato avanti nei prossimi anni. Mi interessa più la direzione tracciata che non la leadership, che, pure, riusciremo a far crescere, perché non mancano figure in grado di fare bene il sindaco e gli amministratori.
Che volto ha Brescia dopo dieci anni di governo Del Bono? Possiamo dire con orgoglio che la nostra è una città bella. Abbiamo lavorato di più dove maggiore era la distanza tra la bellezza auspicata e la criticità dei luoghi. I progetti di riqualificazione di via Milano o del Parco delle cave sono un esempio lampante: due luoghi brutti stanno diventando più belli e attrattivi. Anche gli accessi alle vie della città sono diventati vie gradevoli.
Ma investire in bellezza paga? Con la cultura si mangia eccome. Produzione culturale e turismo, pur essendo settori distinti, hanno generato una crescita esponenziale delle opportunità di lavoro. Chi avrebbe mai detto, solo pochi anni fa, che chi si occupa di offerta culturale o di comunicazione avrebbe potuto dar vita a nuove professionalità?
E la capitale della cultura 2023 è alle porte. Secondo un’analisi di Fondazione Symbola, le province di Brescia e Bergamo, se messe insieme, sono la quarta realtà economica in Italia nella produzione dell’offerta culturale (e non stiamo parlando del turismo). Parliamo di capacità di generare occupazione e produrre ricchezza. Fino a trent’anni fa Brescia non si sarebbe potuta immaginare come città della produzione dell’offerta culturale, ma “solo” come “capitale” della manifattura, dell’industria pesante, della metalmeccanica, della chimica. Stiamo decisamente cambiando pelle.
Con quali ricadute? Una città che alterna luoghi della produzione pesante con luoghi dei servizi e della creazione culturale è più vivibile, più sostenibile e più stimolante. Oggi un cittadino bresciano ha molte più opportunità di crescere culturalmente di quanto ne avesse ai tempi in cui ero ragazzo io. E non parlo di cultura d’élite ma di un bene alla portata di tutti, al di là del reddito, perché tutti hanno diritto alla bellezza.
Riuscirà Brescia a lasciarsi alle spalle l’etichetta, lusinghiera ma limitante, di città laboriosa e industriale? Dico di più. La nostra può diventare anche una delle grandi città dove si pratica sport e si fa offerta sportiva: ci manca solo un grande stadio, ma abbiamo, e avremo sempre di più, impianti e strutture diffusi su tutto il territorio.
Un patrimonio imponente, difficile da trovare in una città di media dimensione, che genera, oltre che benessere sociale, anche ricchezza.
Una città bella e ricca, come la nostra, riuscirà a essere anche inclusiva? Lo siamo già e chi pensa di dividerla, tornando agli slogan del passato, non hai idea di che effetto distorsivo e distruttivo possa innescare. Un quarto degli abitanti, tra immigrati regolarmente residenti e nuovi cittadini italiani con radici lontane, è di origine straniera. Di 146 nazionalità presenti a Brescia, con lingue e religioni differenti, siamo riusciti a fare una koinè, una grande comunità dialogante che produce una convivenza serena, operosa e non problematica. Il lavoro non è ancora completato: abbiamo ancora un bel pezzo di strada da fare per poterci dire una comunità pienamente inclusiva. Ma la strada è tracciata.
Usciamo da una pandemia; abbiamo toccato con mano i rischi del cambiamento climatico, con la siccità dell’estate; c’è una guerra nel cuore dell’Europa. Che cosa possiamo fare di fronte alle grandi sfide del nostro tempo? Tutti parlano del cambiamento del clima, dell’esigenza di una nuova politica di transizione ecologica. Ma queste grandi trasformazioni si affrontano nel territorio, con politiche urbanistiche, con politiche di mitigazione ambientale, con l’efficientamento energetico. Certo, è necessario un disegno strategico più ampio, ma se non è declinato a livello territoriale non ha gambe.
Insomma, piccolo è bello? Mi spingo a dire che persino la “pedagogia civile” si fa nel territorio, perché il valore della democrazia si capisce di più dentro una dimensione micro che macro: è nel piccolo che si coglie meglio l’importanza della qualità democratica delle decisioni e di come maturano. Anche se ciò che accade in Cina, in Russia, in Ucraina o in Bosnia ci riguarda da vicino, perché confrontandoci con quelle realtà capiamo il valore della democrazia e prepariamo gli anticorpi per evitare una pericolosa regressione democratica.
«Se vuoi essere universale, parla del tuo villaggio» ha scritto Tolstoj. È questa la sfida? Dobbiamo avere un atteggiamento “glocale”, con i piedi piantati nel locale, ma senza perdere mai di vista quello che accade su scala globale, perché, prima o poi, ci travolgerà.
È accaduto con la pandemia e la guerra e succede con il cambiamento climatico: non siamo immuni da quello che capita lontano da noi. Solo una cultura diffusa democratica ci potrà salvare. È il lavoro più grande che deve fare la politica.
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