Romano Prodi, oltre che il padre dell’euro, è tra i primi ad aver lanciato l’idea dei bond comunitari, diventati realtà con il Next Generation EU. «Se sapremo metterci insieme, l’Ue uscirà più forte dalla pandemia e dalla guerra».

 

«Dalla crisi della pandemia e dal disastro della guerra potremmo uscire più forti solo se saremo capaci di rimetterci in movimento. Siamo già forti, ma siamo dei poveracci perché siamo divisi». Secondo Romano Prodi, due volte presidente del Consiglio e presidente della Commissione europea dal 1999 al 2004, il futuro del nostro continente, che rischia il suicidio, è tutto nelle nostre mani. «Basta che ci si metta insieme per uscire più forti da questa guerra». Da una crisi, come dice papa Francesco, si esce o peggiori o migliori, mai uguali. Dipende da noi. Può essere lo stimolo per innescare il cambiamento.

Non è stato proprio così per il Covid? 

La Germania mai avrebbe voluto qualcosa come il Next Generation EU, ma si è accorta che della pandemia nessuno aveva colpa, non certo gli italiani o i greci. Poi è arrivata la Brexit, e l’uscita della Gran Bretagna ha consentito una solidarietà che non ci sarebbe stata. Infine, gli imprenditori tedeschi hanno capito che anche la grande Germania e la grande industria tedesca senza l’Europa non avrebbero potuto avanzare. 

Adesso la guerra che cosa dimostra? 

La stessa cosa: che divisi siamo tremendamente deboli e che la palla è in mano alla Francia. I francesi hanno il diritto di veto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e hanno l’arma nucleare. Però sono molto indeboliti in Africa da una eredità coloniale che pesa molto. Se avessero il coraggio politico di mettere le proprie unicità al servizio dell’Europa sarebbe una Francia più grande e l’Unione raggiungerebbe l’obiettivo di rialzarsi più forte dalla crisi. 

A proposito di guerra, lei fin dall’inizio ha espresso la preoccupazione di non spingere la Russia nell’abbraccio con la Cina.

L’intervista più bella e più fresca su questa guerra è quella di un giovane politologo americano, il 99enne Henry Kissinger (ride, ndr). Abbiamo fatto una grande fesseria, ha detto, perché quando si è in tre, si gioca ad avere una finestra da tutti i lati, non a spingere gli altri due a mettersi assieme e noi a rimanere soli a contrastarli. Tuttavia, secondo Kissinger, ci sono ancora delle differenziazioni tra Russia e Cina su cui è utile riflettere per fare in modo che il blocco cino-russo non sia così solido. Ma serve intelligenza politica. 

Quindi la soluzione del conflitto in Ucraina sta nella riapertura del dialogo degli Stati Uniti con la Cina?

Non c’è dubbio. La cosa drammatica è che c’è meno dialogo adesso che non quando esisteva l’Unione Sovietica. Quest’anno ricorrono i sessant’anni dalla crisi dei missili di Cuba: allora è stato il dialogo tra Kennedy e Krushev a evitare un disastro nucleare. Semplicemente si sono parlati. Dovremmo tornare a farlo anche oggi.

Magari bypassando Putin.

La Russia è un grande Paese, territorialmente il più vasto del mondo ma da un punto di vista produttivo-industriale senza la Cina ha seri problemi. Ai miei studenti ricordavo che “la Cina cresce di una Russia all’anno”. La Repubblica popolare ha una forza nei confronti della Russia e dall’altra parte l’America ha una grande forza nei confronti dell’Europa.

Il Next Generation EU, che in Italia si è tradotto nel Pnrr, è stata la risposta europea a due anni di Covid, oltre ad avere proposto una prima forma di Eurobond. Lei, insieme al professor Alberto Quadrio Curzio è stato forse il primo in Europa a lanciarli. Siamo sulla strada giusta?

Se avanza anche l’Europa politica allora siamo all’inizio di un percorso molto innovativo. Fare dei passi in avanti in politica è conveniente per tutti. Dobbiamo arrivare velocemente ad avere un comune politica estera, di difesa ed economica. Altrimenti l’Europa non potrà  svolgere il ruolo che le compete. 

Come risolvere il grande nodo dell’unanimità?

L’Europa ha 27 Paesi e basa i suoi processi decisionali, purtroppo, su una regola, che dovremmo abolire. Ma per abolire l’unanimità ci vorrebbe un voto all’unanimità. Un perfetto circolo vizioso. Per fare dei salti in avanti dobbiamo creare un numero più ristretto di Paesi disposti a fare qualcosa in più. È la cooperazione rafforzata, che ha bisogno almeno di nove Paesi. Abbiamo un grande esempio: l’euro. Dai 12 inziali, la moneta unica oggi ne coinvolge 19 e a gennaio diventeranno 20 perché entrerà la Croazia. 

A questo proposito, molti no-euro hanno criticato un un’unione basata solo sull’economia. Ma la moneta unica, di cui lei è stato il padre, non è solo questo, vero?

Lo Stato moderno è fondato sulla moneta, sull’esercito e sulla giustizia, che sono i pilastri che difendono la statualità. Quando mi dicono che l’euro è un fatto puramente economico mi viene da ridere. Le racconto un aneddoto: nei vertici con i presidenti cinesi, all’inizio del secolo, a fronte di dossier dettagliatissimi, loro erano interessati solo a una cosa: l’euro. Chiedevano: “Davvero farete una moneta comune, non esisterà più il Franco, il Marco, la Lira (questo lo chiedevano un po’ meno!)? Potremo tenere riserve in euro?” La mia risposta era: “Sì”. Il presidente cinese mi disse: “Allora io comprerò tanti euro quanti dollari perché se accanto al dollaro c’è l’euro, c’è posto anche per la moneta cinese”. Era il grande disegno politico di passare da un mondo monopolare a un mondo multipolare. Si può chiamare questa: “Europa dei banchieri”? No, questa è politica.

Come si potrebbe dispiegare il processo della cooperazione rafforzata? 

Tenendo sempre aperte le porte agli altri. La Francia dovrebbe prendere l’iniziativa insieme a Germania, Italia e Spagna per questo tipo di cooperazione. A ruota arriverebbero molti altri Paesi. Il primo obiettivo è fare insieme la politica estera e la difesa comune, poi se altri vorranno tenere la loro differenziazione per la loro storia diversa facciano pure, ma la porta rimarrà sempre aperta. Non va dimenticato che Francia, Germania, Spagna e Italia detengono i 3/4 del prodotto lordo europeo. Questo ci permetterebbe di diventare arbitri e mediatori della politica mondiale, ritagliandoci un ruolo che oggi non abbiamo.

Che cosa pensa della proposta, fortemente sostenuta dall’Italia, di accelerare il processo di ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea?

In teoria sono uno specialista in materia, nel senso che l’allargamento l’ho praticato. Ma l’Ucraina può entrare solo se pacificata, perché queste sono le regole che noi europei ci siamo dati. L’ingresso nell’Unione deve essere uno strumento di coesione e di pacificazione. Nel 2008, proprio l’ultimo giorno del mio secondo governo, con Francia e Germani al vertice Nato di Bucarest votammo contro l’ingresso di Ucraina e Georgia nell’alleanza atlantica. Non perché non le volessimo ma perché noi temevamo, credo giustamente, che per evitare tensioni ci dovessero essere delle zone cuscinetto, cioè zone ben sorvegliate, ben custodite. Bisognerebbe riesaminare oggi la situazione.

Che cosa pensa, in genere, della strategia di allargamento dell’Unione?

L’allargamento io l’ho perseguito e penso che l’Europa debba continuare a farlo. Di certo i Balcani e l’Albania appartengono all’Europa. La grande discussione discussione sull’ingresso della Turchia è ormai tramontata. La sfida è di creare attorno all’Europa quello che io chiamo “l’anello degli amici”: dalla Bielorussia fino alla Siria, per arrivare a Israele, all’Egitto, al Marocco. Hanno il diritto di aprire negoziati bilaterali con l’Ue su punti specifici, senza diventare membri. L’Unione, così, può essere un elemento di pace e di apertura verso tutti i Paesi che le stanno vicini. 

Quest’anno si ricordano i 35 anni dell’Erasmus. Che contributo ha dato questo programma alla costruzione dell’Unione europea?

Ha inciso moltissimo e inciderà sempre più in futuro. Tutti i miei studenti che hanno fatto l’Erasmus sono tornati cambiati perché hanno capito come deve essere la convivenza tra persone di nazionalità diverse. Dico sempre scherzosamente che ha creato pochi premi Nobel ma tanti bambini. Al di là delle battute, è stata una grandissima opportunità.

Possiamo dire che la formazione è una chiave per fare l’Europa?

Ho ancora un sogno, alla mia età: fare una trentina di università distribuite in tutto il Mediterraneo: in un luogo di tragedia, il più grande cimitero del mondo, come lo chiama papa Francesco, dare vita a trenta veri atenei, paritari, per esempio ad Atene e al Cairo; a Palermo e Tunisi; a Napoli e Tripoli, a Barcellona e Rabat, per fare degli esempi) con uguale numero di studenti del Sud e del nord, uguale numero di professori, una sede al Sud e una sede al Nord, tanti anni di studi al sud, tanti anni di studi al nord. Quando avremo portato 500mila ragazzi a studiare insieme avremo già fatto la pace nel Mediterraneo. E costa meno del pattugliamento delle coste. Lo proposi nel 2002 ma gli svedesi e gli inglesi dissero che erano soldi buttati. Adesso c’è una sensibilità diversa, con la tragedia dell’immigrazione, e questa proposta potrebbe passare. Qualche volta i sogni, se fatti insieme, si realizzano.