Se la bilancia pende verso il lavoratore 

Michele Faioli, giuslavorista dell’Università Cattolica e del Cnel, racconta la rivoluzione del lavoro da dieci anni a questa parte

E sì che l’articolo uno della Costituzione non lasciava dubbi. Ma, osservando l’ultima campagna elettorale, sembra che la “Repubblica fondata sul lavoro” si sia trasformata in quella “basata sul sussidio”. Che cosa è cambiato in un Paese transitato, senza soluzione di continuità, dalla stagione del Jobs Act e delle polemiche sull’articolo 18 a un’Italia in cui la dignità non passa più dal lavoro? E com’è che le aziende che, fino a non molto tempo fa, rifiutavano i candidati, oggi vanno a cercarli anche per posizioni non particolarmente qualificate, affiggendo manifesti 6×9 per magazzinieri con patente C, come successo a Brescia, o comprando pubblicità sui giornali o sulla rete, come McDonald’s a caccia di commessi?

Lo abbiamo chiesto al professor Michele Faioli, docente di Diritto del lavoro all’Università Cattolica del Sacro Cuore, consigliere esperto del Cnel, uno dei giuslavoristi più attenti a scorgere in anticipo le trasformazioni del lavoro. «Quello cui stiamo assistendo è un classico mismatch» commenta il professore. «Anche se, nel caso specifico, parliamo di disequilibrio tra domanda e offerta di lavoro per magazzinieri. Perché si verifica? Perché per questa figura o per il camionista la professionalità sta cambiando e prevede sempre più l’utilizzo dei robot intelligenti (i “cobot”), o dell’esoscheletro, strumenti che aiutano l’operaio a spostare le merci. Tecnologie che richiedono formazione specifica e nuove competenze, oltre che un diverso “storytelling” del lavoro: non c’è più il magazziniere che si spacca la schiena, ma quello che va a fare un lavoro in modo nuovo e in una fabbrica 4.0».

Diminuisce la fatica ma aumentano le competenze per guidare i robot. Per questo i Centri per l’impiego e gli enti di formazione dovrebbero far parte di un circuito che, prendendo nel sud ragazzi “Neet” (acronimo di “Not  – engaged – in Education, Employment or Training”, cioè, tecnicamente, “nullafacente”, ndr), li forma e li manda a lavorare a Brescia, a Bergamo o dove c’è lavoro, dotandoli di uno stipendio che permetta loro una vita normale, una casa e un’auto».

Come siamo arrivati a questa difficoltà di fare incontrare domanda e offerta di lavoro?  C’è un tema che abbiamo sottovalutato ed è il problema demografico. Ci sono alcuni settori produttivi che già dicono cosa avverrà tra dieci-quindici anni a livello strutturale e trasversale. Facciamo un esempio: è evidente che avremo sempre meno autisti italiani, lo dice la demografia. Le aziende della logistica cercano di reclutare personale in Africa, ma sono bloccati dalla Bossi-Fini. 

Ancora? Visto che, proprio per ragioni demografiche, è bloccato anche il mercato dell’Est, dove si reclutavano tradizionalmente figure per la logistica e il trasporto, le aziende vanno in Nigeria o in Etiopia, prendono alcuni ragazzi, li formano, fanno prendere loro la patente e li fanno venire in Italia, anche con famiglia. Ma la Bossi-Fini rende tutto più difficile. 

Perché? Quella legge del 2002, che porta i nomi del fondatore della Lega Nord e dell’allora leader di Alleanza nazionale, ha impedito flussi di ingresso normali: sono tutti ingressi speciali o condoni, mentre avremmo bisogno, ogni anno, di tot mila lavoratori in settori che vanno dalla sanità ai pubblici servizi, dalla logistica alla meccanica. Con Roberto Rossini scrivemmo un articolo sul Foglio in cui avanzavamo una proposta molto pratica: quella di sovvenzionare gli enti di formazione per fare formazione in loco nei Paesi di provenienza e creare un canale privilegiato per far entrare lavoratori nel nostro Paese.

E, siccome era un’idea intelligente, non è stata accolta né a destra né a sinistra. Il problema è con il decreto Flussi annuale la Bossi-Fini ha congelato il meccanismo che, invece, la Turco-Napolitano prevedeva per l’ingresso motivato da ragioni di lavoro. Sono passati vent’anni ma nessuno ci ha messo mano.

È solo una sensazione o, rispetto ad alcuni anni fa, si sono un po’ riequilibrati i rapporti di forza tra lavoratori e aziende? Se una volta la possibilità di scegliere e di cambiare lavoro/azienda riguardava quasi esclusivamente i lavoratori molto qualificati, oggi la soglia si è un po’ abbassata e anche il personale mediamente qualificato può scegliere dove andare, anche se, soprattutto, in specifici settori. 

Con quali conseguenze? Alcune ricerche mettono in luce che i lavoratori, valutando se l’azienda è attenta alle persone, alla loro formazione, alle loro esigenze, all’ambiente, sia di lavoro che tout court, a volte cambiano per andare a lavorare dove si trovano meglio, anche per uno stipendio inferiore a quello che percepiscono. Al punto che nelle selezioni, ormai, accade che non sia più l’azienda a scegliere ma che siano i candidati o le candidate a valutare se l’attenzione di quell’impresa, la proposta di welfare, il grado di coerenza nella sostenibilità, siano fattori sufficienti per prendere una decisione.

Si fa un gran parlare del fenomeno delle grandi dimissioni, cioè della tendenza dei dipendenti a dimettersi volontariamente in massa dai posti di lavoro, soprattutto nel dopo-Covid. Solo una moda o anche realtà? Inviterei alla cautela. I numeri vanno letti su serie storiche, in relazione ai momenti concreti e alle diverse geografie. Questi fenomeni non vanno analizzati solo dal punto di vista quantitativo ma anche all’interno di eventi “speciali” come la pandemia e la guerra. E poi c’è un altro problema: gli studi dei colleghi nordamericani, i primi a segnalare il fenomeno delle grandi dimissioni, tendono a diventare dei trend culturali e qualche giuslavorista di casa nostra sta provando a vedere se funziona come tema anche in Europa. 

Perché se ne vanno queste persone? Tra i motivi ci sono senz’altro fenomeni particolari come la pandemia e la guerra. È evidente che per tanti lavoratori e lavoratrici il perdurante lockdown ha portato a rivedere la propria vita e le proprie priorità e a scegliere un ritmo di vita più consono alle proprie aspirazioni. Però, ripeto, sono numeri esigui.

E dove vanno questi “dimissionari”? Vanno verso lavori migliori e lo notiamo dallo sforzo che si sta facendo dal punto di vista della contrattazione aziendale nel ridefinire i modelli di conciliazione vita-lavoro. Il sindacato viene spinto a trattare più sugli incentivi e sul welfare aziendale che non sulla retribuzione. Nel welfare c’è tanta conciliazione vita-lavoro. Inoltre, soprattutto i giovani e le donne o i maschi âgé, potendo, decidono di fare scelte di lavoro che concilino esigenze di vita e di lavoro. 

E i giovani? Parlando con i responsabili del personale di grandi corporation della finanza o del big tech, apprendiamo che per loro è fondamentale una conciliazione vita lavoro giocata sui tempi e sul tempo. Un’idea legata allo smart working, al lavoro agile. I giovani, per quanto ci viene raccontato, dopo il primo colloquio chiedono quanti giorni di lavoro agile possono avere durante l’arco della settimana o del mese o dell’anno. 

Con quali ricadute? Se dal dato sociologico e fenomenologico ci spostiamo su quello contrattuale, ci rendiamo conto che i contratti aziendali si stanno occupando esattamente di gestire questa materia, nei campi più importanti (meccanica, finanza, energia, alimentare, industriale, pharma e così via) che sono i settori che, tradizionalmente, spingono sulla contrattazione aziendale le soluzioni per i problemi organizzativi. Nel bresciano, bergamasco, milanese sapete di cosa stiamo parlando, in altri posti non ne sanno proprio niente. 

Per chiudere. Che cosa è cambiato nel mondo del lavoro nel giro di pochi anni, dalle polemiche sul Jobs Act e sull’articolo 18? È cambiato l’approccio al lavoro. Dieci anni di storytelling sul reddito di cittadinanza hanno prodotto un’azione psicologica sulle persone, insinuando una lettura negativa del lavoro. Non è un caso che papa Francesco, a più riprese, abbia rimarcato che l’assistenzialismo è un male, che serve come prima cura ma rischia di privare la persona dello strumento su cui si costruisce la propria dignità, che è, invece, il lavoro. 

In campagna elettorale si è arrivati a dire che criticare il reddito di cittadinanza equivaleva a prendersela con i poveri. La povertà non si cancella con i sussidi, è multidimensionale. Si lotta contro la povertà quando si abilita il povero a uscirne, non solo distribuendo un sussidio-reddito. Tutte le grandi associazioni caritatevoli, dalla Caritas al terzo settore, si basano su questo principio: il povero deve rimettersi in piedi e scoprire come “ricostruire” la propria dignità. Lo Stato che si sostituisce in toto alla dignità della persona (come la definisce il Concilio), la rende dipendente. 

Che cos’è che dà dignità a una persona? Insistere sulla sua autonomia. La  Costituzione si basa su questo principio. Quando agli articoli 2, 3 e 36 parla di dignità fa riferimento all’autonomia della persona di costruirsi un percorso di formazione, professionale e di vita, che è dato dal lavoro e dal connesso guadagno. Deve essere data alla persona la possibilità di scegliere un lavoro. 

E il reddito di cittadinanza non lo fa? Ho molti dubbi che lo si possa intendere come strumento di lotta alla povertà, e, per fortuna, non sono il solo. Non seleziona i veri poveri, si basa su criteri di individuazione della povertà, reddituali e patrimoniali, che sono fallati e, per inefficienza insita nello strumento, non consente alla persona di uscire dalla trappola della povertà.

Il Reddito d’inclusione sociale (Reis),

invece, spingeva sulla seconda gamba per non rimanere in questa trappola. Prevedeva l’intervento dell’assistenza sociale: è necessario avere qualcuno di prossimo, sui territori, che deve saper valutare le condizioni psico-sociali della famiglia, solo in questo modo si possono selezionare i veri poveri, le persone/famiglie da accompagnare, che sicuramente ci sono e vanno aiutate.