La pandemia in corso e la doverosa necessità di limitare i contagi hanno alimentato nei giovani una tendenza, già in crescita, all’utilizzo massiccio della tecnologia. Pur se distanziati forzatamente, i ragazzi riescono comunque a “comunicare” con i coetanei grazie alle app di messaggistica; attraverso la didattica a distanza – DaD – con tutte le difficoltà del caso, si sta tentando di “fare scuola”; mille sono i modi per imparare e per divertirsi che offre la rete, infinita la vastità di informazioni e le occasioni di approfondimento.

Se, appunto, l’uso della tecnologia può rivelarsi una risorsa, il suo abuso può creare un grave pregiudizio ai ragazzi stessi ma, di riflesso, anche alle loro famiglie, alla scuola, alla comunità tutta. Siamo abituati a pensare, infatti, che il mondo virtuale non sia reale, ma così non è e ce lo hanno dimostrato i molti casi di cronaca relativi a “risse in piazza tra ragazzi” che “si erano dati appuntamento su Facebook”.

Ai giovani, in particolare a quelli che oggi stanno vivendo questa emergenza sanitaria, così come, in generale, a tutti i navigatori della rete, bisogna insegnare che le azioni compiute online, anche quelle più banali come “postare un commento”, mettere un “mi piace”, “partecipare a un gruppo”, “creare una pagina”, possono avere dei risvolti anche nella vita di tutti i giorni, nelle relazioni che ciascuno di noi intesse con gli altri. Basta poco perché un commento diventi un insulto o perché un “mi piace” a un video violento, o la sua condivisione, vada a corroborare il proposito offensivo dell’autore; può accadere altresì che una “pagina” su un social network venga creata appositamente contro qualcuno, probabilmente già discriminato e vessato (pensiamo al pericoloso fenomeno del cyberbullismo, cioè al bullismo consumato in rete).

La virtualità, così come la realtà, presenta rischi e insidie, e questo deve essere chiaro a tutti; in particolare ai giovanissimi che, con apparente disinvoltura, “navigano” in quel mare infinito chiamato internet. Ma se a Palermo, una bambina di 10 anni si toglie la vita con la cintura di un accappatoio per una “sfida” su TikTok, significa che qualcosa non va. Se molti minori, ogni giorno, vengono adescati da adulti sconosciuti, se sempre più bambini sono già dipendenti da giochi e scommesse online, se tanti adolescenti vivono situazioni psicologicamente devastanti dopo aver inviato le proprie foto compromettenti a un “amico” che sono finite poi nelle mani sbagliate, significa che gli adulti stanno venendo meno alla responsabilità di educare all’uso consapevole delle tecnologie.

Apprezzabile, in questo senso, appare il tentativo del provvedimento del Garante per la Protezione dei Dati Personali di rafforzare la tutela dei minori mediante un controllo sul rispetto del requisito dell’età anagrafica per l’iscrizione a TikTok (gli utenti devono avere almeno 13 anni). Si tratta però una misura piuttosto morbida che prevede una soglia d’età bassa e comunque facilmente aggirabile utilizzando una data di nascita falsa.

Insomma, il rischio che i ragazzi s’imbattano in contenuti inappropriati, violenti, illegali e pericolosi per la loro salute è ancora attuale. D’altronde il Garante può monitorare, non certo sostituirsi ai genitori e a tutti gli adulti chiamati a rivestire un ruolo fondamentale di vigilanza attiva sui minori che utilizzano tecnologie. Due efficaci soluzioni per tutelare i “nativi digitali” si rivelano: l’installazione sui dispositivi domestici del c.d. parental control (un “filtro” che nega l’accesso a determinate categorie di siti) e l’utilizzo di un browser dedicato ai bambini al posto di uno standard.