Siamo sempre più dipendenti dalle tecnologie.

Ce ne accorgiamo in ogni azione quotidiana, a partire dal tocco sullo schermo del computer portatile che abbiamo sempre in mano sotto forma di smartphone. O dal fatto che stiamo perdendo la capacità di orientarci, perché tanto, a guidarci, ci pensa il navigatore. 

È il «nuovo habitat» in cui siamo immersi, come fa notare Luciano Floridi, uno dei più lucidi interpreti delle implicazioni dell’intelligenza artificiale e dei processi di digitalizzazione. Secondo il professore di Filosofia ed Etica dell’informazione a Oxford, abbiamo di fronte «un divorzio tra la capacità di risolvere un problema con successo in vista di un fine e la necessità di essere intelligenti nel farlo». Il fatto è che siamo riusciti a ingegnerizzare cose che risolvono problemi a intelligenza “zero”. È stato possibile tramite costi abbattuti, una maggiore computazione, una quantità mostruosa di dati. Basti pensare che il 99% di tutti i dati mai prodotti dall’umanità li abbiamo prodotti noi contemporanei. Una trasformazione senza precedenti che ha portato a creare un mondo a misura delle macchine. Dobbiamo difenderci da questo processo? O l’automazione è una buona alleata per ridurre la fatica, soprattutto in settori usuranti del mondo del lavoro, dove le operazioni manuali sono ancora preponderanti? 

Pensare di poter arginare l’innovazione e la rivoluzione tecnologica è probabilmente tempo sprecato.

Certo, c’è chi teme che possano portare alla fine del lavoro, con le macchine che prendono il posto dell’uomo. Ma, secondo Floridi, è un errore. Piuttosto è la «fine di alcuni business model», la «fine dell’identità tra impiego e lavoro», la «fine della identità con il proprio lavoro». È in atto una trasformazione rapida delle capacità lavorative che va accompagnata, con processi di formazione lungo tutto l’arco della vita, che richiedono oltre a una preparazione specifica, da aggiornare, competenze trasversali per essere in grado di gestire il cambiamento. Senza dimenticare, però, che c’è una fetta di generazione di transizione che potrebbe pagare i costi di tutto questo e non deve diventare la vittima sacrificale dell’innovazione. C’è bisogno di un intervento sociale e formativo, per non lasciare indietro nessuno.