In quest’ultimo anno abbiamo completamente normalizzato la vita virtuale. La tecnologia ci ha permesso di continuare a lavorare, studiare, seguire corsi, fare attività fisica e proseguire relazioni, vedendosi, seppur dietro a uno schermo. Attività che solo qualche decennio fa si sarebbero interrotte quasi totalmente senza la possibilità di una connessione così diffusa e pervasiva.

La tecnologia ci ha promesso di migliorarci la vita, i social network di aiutarci a connetterci e rimanere in contatto con chi ci sta attorno, sentendoci vicini anche alle persone più lontane. Ci troviamo, però, immersi (o sommersi) in un mondo sempre più slegato dalla realtà, in tante bolle sociali di contenuti filtrati ad hoc per corrispondere ai nostri gusti e pensieri (grazie agli algoritmi – una sequenza di azioni necessarie per raggiungere un obiettivo – e anche ai famosi cookies – le “briciole” di informazione che lasciamo durante la navigazione), per incontrare sempre la nostra approvazione e restare collegati, creando un mondo -virtuale- personalizzato e, dunque, aderente alle nostre aspettative.

Un mondo che, per quanto distaccato, risulta rassicurante, in cui possiamo scegliere di esserci o di scollegarci, di esporci o di rimanere in silenzio a guardare, dove non è strano se lasciamo una conversazione a metà e rispondiamo ore (o giorni) dopo, se nel frattempo stiamo parlando con altre persone o stiamo guardando un film. Un mondo che ci mostra e ci fa sognare mille possibilità e occasioni da non perdere, tutte sempre alla nostra portata, in cui cresce anche la paura di essere tagliati fuori (la cosiddetta “FOMO”, Fear of Missing Out), una forma di ansia sociale caratterizzata dal desiderio di rimanere continuamente in contatto con le attività che fanno le altre persone e dalla paura di essere esclusi da eventi, esperienze, o contesti sociali gratificanti, che porta ad una diffusa insoddisfazione per quel che si sta facendo e induce, infine, a non scegliere, cercando invece di lasciare aperta ogni possibilità sperando di trovare sempre il meglio.

Cerchiamo di non essere troppo coinvolti nelle relazioni. Viviamo in una sovrapposizione confusa di conversazioni, dove la relazione con l’altro non ha la priorità ma è costantemente interrotta dalle numerose attività che stiamo facendo online, da continui fraintendimenti dovuti a frasi scritte o lette frettolosamente e notifiche che cercano di catturare la nostra attenzione. Il nostro corpo non è coinvolto: manca l’espressività della comunicazione non verbale, le emozioni che affiorano da sguardi e gestualità. Basta un semplice click per nascondere anche il nostro viso in una videochiamata, un messaggio letto in ritardo (o non scritto affatto) per giustificare la propria assenza senza dover aggiungere motivazioni.

Il telefono è sempre più utile per gran parte delle nostre attività, ma è diventato indispensabile anche nel momento in cui torniamo tra le persone: sembrare sempre indaffarati e sentire squilli incessanti serve a dimostrare quanto siamo cercati e apprezzati, tanto che si arriva ad assistere a fenomeni quasi paradossali in cui al posto che dialogare con chi si ha di fronte ci si relaziona con chi sta dietro lo schermo, sul bus o in coda per non lasciare spazio alla noia, ma anche mentre si sta tra gli amici o a cena con il partner.

Ossessionati dall’essere (o fingere di essere) sempre impegnati, da non lasciare momenti vuoti in cui non si sa come impiegare il tempo, costretti a conformarci al sentire comune per essere apprezzati, ci rifugiamo dentro il mondo digitale, illusi dai tanti messaggi e dalle immagini patinate, che altro non sono che frammenti di vita confezionati per sembrare perfetti.

Si sta perdendo sempre più il piacere della fisicità, del fare insieme, l’emozione del percepire la presenza corporea degli altri nello stesso luogo, il potersi toccare e sentire, il guardarsi da vicino e senza filtri, non solo il viso, ma tutto il corpo. Al cameriere preferiamo le app di delivery, al commesso lo shopping online, alla sala del cinema le piattaforme di streaming, accendiamo il navigatore piuttosto che chiedere indicazioni per strada. Comodità, ma anche scelte che ci evitano l’imbarazzo della relazione con gli sconosciuti che tanto ci preoccupano, così non abbiamo più l’ansia neppure di chiamare in pizzeria per ordinare la cena.

L’innovazione ci fa sognare e desiderare un mondo perfettamente integrato con la tecnologia, dove l’intelligenza artificiale può sostituire il dialogo umano o in cui tutti possono avere successo dietro uno schermo, ma il rischio di perdere il contatto con la realtà ci può portare a una distorsione distopica alla Black Mirror.

 

*In copertina: “Absorbed by light”, Gali May Lucas, Amsterdam