Sull’equità di genere, varie ed eventuali

Il concetto di equità di genere sottintende diverse necessità e tra queste vi è senza dubbio quella che ciascuno riceva un’appropriata compensazione per il lavoro svolto. Quando vediamo disuguaglianze possiamo interrogarci sulle loro cause ed esplorare le ragioni che si celano dietro le differenze, ma resta pure sempre da sciogliere un nodo fondamentale: siamo davvero pronti a questo salto culturale, o meglio, le nostre società stanno andando oltre le normative vigenti?

Siamo altrettanto consapevoli che l’idea di equità di genere non può solo risiedere in una pur importante analisi, ad esempio, circa la composizione del panel di conferenze o quant’altro; quello al massimo riguarda la statistiche, la sintomatologia di un fenomeno. Ciò che davvero dovremmo capire è se al fondo delle nostre coscienze “avanzate” o avariate dal politically correct vi sia nella sostanza un reale convincimento di ciò che andiamo a tradurre nel nostro legiferare, senza pontificare a vanvera del nostro agire quotidiano.

Tanto per restare in tema: siamo consapevoli che la norma costituzionale, in una logica protezionistica, indica che alla donna debbano essere garantite le condizioni di lavoro necessarie all’adempimento della sua essenziale funzione familiare e alla protezione della maternità, e con ciò prevedendo un regime di tutele differenziate per il raggiungimento di tali obiettivi? Siamo consapevoli che in una logica paritaria alla donna dovrebbero essere, invece, riconosciuti gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore? Non saprei dare risposte univoche a tali quesiti. E nemmeno se dovessimo cercare nella Costituzione, all’articolo 3, una ragione in meno per garantire la parità di trattamento, ci accorgeremmo che essa non è altro che una specificazione di un principio adattato a limitare l’autonomia contrattuale nei confronti del datore di lavoro.

Basta tutto questo? Dai numeri pare di no. Anche se negli ultimi dieci anni il profilo di partecipazione ed occupazione delle donne, specie tra le nuove generazioni, si è avvicinato a quello europeo, l’Italia continua a presentare i più elevati tassi di inattività, tanto da farci pensare che la questione del lavoro femminile non andrebbe più tenuta distinta da un ragionamento più complessivo sui limiti che il mercato del lavoro italiano offre ancora oggi, peggiorato anzi dal contesto pandemico.

Per questi e altri motivi l’aumento dell’occupazione femminile deve essere perseguito, non tanto e non solo per ottemperare ad alcuni obiettivi europei, ma soprattutto perché consente di evitare uno “spreco” di risorse umane ormai sempre più istruite e in grado di garantire un maggiore sviluppo economico, oltre che migliori condizioni di vita per tutti.

A questo proposito cominciano ad affiorare termini e pratiche come lo smart working da cui trarre benefici non soltanto in termini di “conciliazione”, oppure ancora il gender budgeting che imposta specifici capitoli di bilancio sulle esigenze di genere, o gli stessi meccanismi di gender auditing, che mirano a valutare l’effettiva realizzazione delle azioni  previste in sede di approvazione del bilancio consuntivo, potrebbero segnare finalmente quel “cambio di passo” che da molti anni si attende su questo versante.

È giunto, insomma, il momento di accelerare nella sperimentazione di soluzioni innovative, sia in ambito pubblico, sia in ambito privato, per aprire la strada a questo tipo di possibilità. La strada percorsa si presenta ancora impervia, anche perché la disuguaglianza di genere è, d’altro canto, un fenomeno trasversale che è riscontrabile nell’intera dimensione sociale.

Solo un incessante lavoro culturale potrà fornire, quanto meno, un primo tentativo per depotenziare la crisi incombente che graverà sulle spalle di tutti. Si dice spesso che il virus non guarda in faccia nessuno, a volte anche la povertà può fare dei brutti scherzi. Ricordiamocelo la prossima volta che dovremo decidere da che parte stare, se da quella di chi vuole aumentare le diseguaglianze, anche di genere, o da chi mette al centro della propria esistenza l’armonia della specie umana. Eccolo il famoso “salto” che dovremmo fare.