Una società di consulenza (EY Spa, tra le cosiddette “big 4” del mondo), una agenzia per il lavoro (Manpower) e una casa editrice per testi scolastici (Paerson) hanno condotto un’indagine sulle competenze he serviranno nel mondo del lavoro 2030 dal titolo “Il Futuro delle Competenze in Italia”.

La ricerca è stata avviata prima della pandemia – o comunque in contemporanea col suo primo timido affacciarsi – ma i risultati emersi indicano alcuni trend che il Covid ha accentuato o accelerato in modo irreversibile.

“Allungare lo sguardo oltre alla contingenza” come si spiega nella premessa della ricerca è indispensabile se l’osservazione non è fine a se stessa ma rivolta al supporto dei processi decisionali di istituzioni e policy maker. Dieci anni – il periodo preso in esame – è da considerarsi un lasso di tempo adeguato per la velocità
con cui cambiano i mercati oggi giorno e per raffinare la propria capacità predittiva le tre sigle promotrici si sono avvalse anche dell’intelligenza artificiale. Il modello creato ha lavorato su due binari: le professioni e le competenze ad esse associate (una professione “vecchia” potrà avere in futuro bisogno di competenze
“nuove”).

Il tema della mancata corrispondenza tra domanda e offerta di lavoro era un tema all’ordine del giorno già prima dell’emergenza sanitaria. L’85% delle aziende italiane sopra i 250 dipendenti non riesce a trovare candidati che abbiano le competenze ricercate (ManpowerGroup, Closing the Skills Gap: What Workers
Want, febbraio 2020). Si parla in particolare di profili tecnici e molto specializzati e l’unico modo per tentare di risolverlo è analizzare quale sia la tendenza delle competenze richieste e quali saranno le professioni del futuro.

L’emergenza sanitaria ha però in questo caso alzato la posta in gioco del problema, evidenziando come alcune categorie di cittadini siano a rischio di “non impiegabilità”, tra questi: giovani senza esperienza e senza laurea; la forza lavoro femminile, concentrata nei settori più duramente colpiti della crisi; i profili professionali considerati a scarsa autonomia o con mansioni non “remotizzabili”. Categorie, quelle citate, che per loro natura sono già fragili, hanno perso ulteriormente potere di migliorare la loro situazione.

Questo effetto della pandemia va a sommarsi a quanto già le analisi in esame avevano evidenziato in merito alle tendenze occupazionali: circa un terzo dei lavoratori italiani svolge una professione che subirà una contrazione nei prossimi 10 anni. Un altro terzo è occupato in un settore che rimarrà stabile e il restante terzo è occupato in un settore in crescita. Tra le professioni destinate a necessitare di maggior manodopera citiamo quelle del settore tecnologico e informatico, insieme alla formazione e alla sanità, a perdere quota sono invece i servizi finanziari e assicurativi, la caccia, la pesca e l’agricoltura, e l’industria della carta. Le attività ripetitive e quelle a forte sforza fisico sono infatti quelle maggiormente destinate ad essere sostituite dall’automazione.

Anche se la matematica renderebbe sovrapponibili le due quote, quella delle professioni a rischio con quella delle professioni che faticheranno a trovare addetti, è ovvio che non sia possibile “travasare” semplicisticamente i lavoratori da un settore all’altro, anche se sicuramente quella sarà una tendenza da agevolare con ben studiati programmi di riqualificazione. Studiare e prevedere le tendenze ci dovrebbe dare un po’ di anticipo e l’agio di poter progettare bene questa fase.

Raggruppare le professioni per competenze, come ha cercato di fare lo studio in esame, consente di evidenziare in quali casi il passaggio da una professione all’altra richiederebbe minor sforzo formativo. Ad esempio può succedere quando una vecchia professione si trasforma in una nuova per il “solo” fattore tecnologico,
mantenendo la necessità di tutte le altre competenze che la caratterizzavano.

Come dicevamo, più della metà delle nuove professioni (il 57%) sarà trainato dal settore tecnologico e quindi ci sarà bisogno di competenze tecniche specifiche e continuamente da aggiornare, ma – a dispetto dai catastrofisti tecnofobi (per ispirarci liberamente all’ex FIM Marco Bentivogli) che temono che un esercito di robot prenderà a breve il nostro posto – sarà sempre più importante avete un set di
competenze trasversali di natura sociale e relazionale. Più precisamente ci sono 5 competenze che dall’analisi risultano accomunare tutte le professioni con un trend crescita: la capacità di risolvere problemi complessi, l’apprendimento attivo, l’adattabilità, la comprensione degli altri e l’ascolto attivo. Come evidenzia lo stesso studio, sono tuttavia competenze difficili da misurare e da certificare, quindi particolarmente complesso sarà per imprese, decisori e lavoratori riconoscerle, valorizzarle e promuoverle.

Se parliamo delle generazioni ancora in formazione però possiamo auspicare che il sistema scolastico non trascuri di alimentare queste che sono competenze in parte derivate da attitudini, e quindi, in partenza, molto variabili da soggetto a soggetto. Come viene indicato a conclusione dello studio, inoltre: “ne deriva la
necessità di ripensare i sistemi educativi ‘lineari’ che operano su cicli lunghi, senza mettere a fuoco le competenze fondamentali della persona, nonché le attività massive di formazione poco concentrate sul singolo e sulla sua reale capacità di apprendimento.”

Per approfondire obiettivi, metodi e risultati è possibile consultare “Job 2030