Il 2023 è la prima data che proietta bresciani e bergamaschi oltre la palude della tragedia pandemica che si è abbattuta sulle nostre contrade con grande violenza. E, come capita spesso, la voglia di rinascita è pari e contraria alle macerie lasciate dal virus. É una rinascita che trova uno stimolo significativo nella designazione di “capitale italiana della cultura”, conferito in via straordinaria a Brescia e a Bergamo, in riferimento più al territorio che alle singole città.

Ricordo che la “capitale italiana della cultura” è designata ogni anno dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, secondo un progetto nato nel 2014 da una idea di Dario Franceschini, ancora oggi a capo del ministero stesso. L’iniziativa ha, tra i suoi obiettivi, quello di “valorizzare i beni culturali e paesaggistici” e di “migliorare i servizi rivolti ai turisti”. Finalità che nel corso degli anni hanno assunto un profilo più ampio della pubblicità turistica, per attingere alle fonti della cultura diffusa.

Non so cosa sta succedendo a Bergamo, mentre per quanto riguarda Brescia ci si sta muovendo in varie direzioni, anche se prevale per ora l’attenzione al fare piuttosto che all’essere. A questo proposito, confesso che sono suggestionato da un sospetto, o da un dubbio, generato dalla esperienza pandemica. In questi mesi siamo stati inseguiti quotidianamente dall’emergenza. Ma appena il virus ha mollato la presa, anche se la pratica non è ancora chiusa, sono venute a galla in misura sempre più invasiva preoccupazioni di carattere socio-economico che rimandano alle ossessioni pre-pandemia.

Se prima eravamo concentrati sul PIL, adesso siamo aggrappati al PNRR. In un contesto di “impero” dell’economia, del mercato, dell’occupazione, degli investimenti, della produzione, del debito pubblico, delle tasse e chi più ne ha più ne metta, materialisticamente parlando. Dentro la cultura e gli schemi del paradigma tecnocratico, messo nudo ripetutamente da papa Francesco, in particolare nell’enciclica “Laudato sì”.

Sia ben chiaro: non sono così stupido da considerare insignificanti i problemi di carattere economico. Ma non vale la pena vendergli l’anima. Anche perché arriva sempre il momento in cui i conti comunque non tornano. Non ho i titoli, e non è qui il caso, per fare un’analisi approfondita di tutte le storture del sistema sanitario (a partire dalla Lombardia) che la pandemia ha messo a dura prova: sarebbe interessante capire quanto ha inciso una politica sanitaria dominata dal paradigma
tecnologico sui ritardi e i contrattempi con cui si è affrontata l’emergenza e qual è stato prezzo pagato a livello umano. Perché è evidente che la dimensione economicistica della politica non risponde e non può rispondere a una dimensione umanistica della società. La logica del profitto finisce presto o tardi per penalizzare l’umanesimo.

Non so se, e in che misura, sono nel giusto o ho le idee confuse, ma nei mesi scorsi ho avuto questa percezione: durante i passaggi più invasivi della pandemia, soprattutto nella primavera 2020, ci sono stati momenti in cui eravamo tenuti in vita da un senso di appartenenza umana che cancellava tutte le diversità e le disuguaglianze materiali e spirituali, perché ci rendevamo conto che da soli non avevamo futuro, che da soli non potevamo salvarci. Quei sentimenti, quelle tensioni, quel sentirsi davvero sulla stessa barca pericolante, hanno scoperchiato le radici della vita condivisa, del noi che non soffoca ma arricchisce l’io, della comunità che non mortifica la libertà, ma al contrario libera dal narcisismo autolesionista. In quei momenti il PIL (e tutte le correlative sigle dell’avere) non era più un problema perché era in gioco l’essere, l’essenziale, la vita.

Ho trovato un riscontro a questo livello nella testimonianza di un medico colpito dal cancro che di fronte alla prospettiva della morte ha scritto: «La scienza potrà anche essere il modo più efficace per organizzare i dati empirici e riproducibili, ma questo suo potere scaturisce dall’incapacità di cogliere gli aspetti fondamentali della vita umana: speranza, paura, amore, odio, bellezza, invidia, onore, debolezza, impegno, sofferenza, virtù» (P. Kalanithi, Quando il respiro si fa aria, Milano 2016, p. 111).

D’altro canto, p. Adolfo Nicolàs, già superiore dei Gesuiti, ritiene che la minaccia più grave alla nostra civiltà sia rappresentata dalla “globalizzazione della superficialità”, conseguenza della banalità di una quota rilevante della comunicazione sui social media. La mentalità univoca, il mondo semplicistico dei tweet e degli slogan. Con una percezione riduzionista del mondo che mortifica e immiserisce l’immaginario della cultura. Ne ha anticipato la descrizione la scrittrice americana Flannery O’ Connor (morta a 39 anni nel 1964) in una lettera del 1955: «A certi settori della popolazione hanno estirpato il senso morale, come a certi polli estirpano le ali per ottenere più carne bianca. Questa è una generazione di polli senza ali, e credo che Nietzsche alludesse alla stessa cosa dicendo che Dio è morto» (F. O’ Connor, Sola a presidiare la fortezza, Torino 1979, p.27).

È dentro questa cornice che confronto la Brescia di oggi con quella del recente passato e avverto la sensazione di un vuoto che si è determinato negli ultimi decenni. Alle spalle abbiamo non tanto una serie di opere più o meno esaltanti, ma un tessuto sociale e culturale molto ricco sotto molti punti di vista, con correnti di pensiero ben identificabili e che hanno segnato la storia della città e della provincia. Con un peso rilevante della cultura cattolica che, soprattutto nell’ambito editoriale, ha dato un contributo importante di idee e di testimoni alla preparazione remota del Concilio Vaticano II.

Oggi di quel mondo restano eredità che hanno scarsa incidenza nella costruzione di una identità comunitaria.

In generale la definizione del volto della Brescia di oggi è un’impresa molto difficile. Non è una questione di avere e/o di fare, ma di essere. Perché il fare non basta a dare forma all’anima bresciana. E, come diceva Aristotele «l’anima è in certo modo tutti gli esseri». O, rovesciando gli addendi, «il volto è l’anima del corpo» (L. Wittgenstein, Pensieri diversi, Milano 1980 p. 51). Il volto «di colui che lotta per la verità non è solo più “spirituale”, ma più volto di quello di un uomo apatico; il che significa corpo più vero, più intenso … il corpo come tale diventa tanto più intenso e prezioso, quanto più profonda è l’interiorità, più ricca la vita del cuore, più elevata la spiritualità» (R. Guardini, Le ultime cose, Milano 1997, p.67).

Quello che vale per l’individuo si moltiplica, nel bene e nel male, per la società. Viviamo in una condizione di frammentazione socio-culturale che
fa fatica a sottrarsi alle spinte settoriali se non individualistiche, senza volto. Una condizione in cui la Chiesa si attarda nell’inseguimento di schemi pastorali inadeguati rispetto alle provocazioni della modernità. Un problema che si proietta oltre i confini bresciani.

Nell’ultima intervista rilasciata al confratello p. Georg Sporschill e a Federica Radice Fossati Confalonieri nel 2012, il card. Carlo Maria Martini disse: «La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio». Si può affermare tranquillamente che ai 200 anni vanno aggiunti i nove successivi, perché nel frattempo non è successo nulla che possa far pensare a
cambiamenti significativi. Anzi, la pandemia lascerà segni di grandi, ulteriori sofferenze, mentre in Vaticano è risorta l’era costantiniana con il ricorso alla politica concordataria per bloccare un disegno di legge. Al di là della contaminazione con il potere, manca la percezione della questione di fondo: la partita non si gioca né a Montecitorio né in qualsiasi altro luogo della politica e tantomeno nelle piazze dei cattolici non credenti, ma nelle coscienze. Sono le coscienze che determinano le leggi e non viceversa.

Un vescovo ha fotografato così, con ironica efficacia, la situazione: «Quando san Paolo predicava scoppiavano rivolte, quando predico io mi offrono una
tazza di thè».

Ad aprile è apparso nelle librerie l’ultima fatica del domenicano Timothy Radcliffe, conosciuto anche a Brescia, testimone del bisogno di rinascita nella società e nella Chiesa. Sono molti gli spunti che il libro offre a chi ha voglia di pensare e, soprattutto, di vivere piuttosto che limitarsi a sopravvivere. Mi sembra molto stimolante questo: «Siamo chiamati a un incontro che sazi tutta la fame che avvertiamo di pienezza di significato, un incontro che ricomprenda tutte le piccole spiegazioni con cui diamo senso alla nostra vita» (Accendere l’immaginazione. Essere vivi in Dio, Milano 2021 p. 29). Senza banalizzare, abbiamo bisogno di fare un salto di qualità per dare fiato alla “capitalizzazione” del pensare.

PS. Almeno per andare oltre il disperante e stupido slogan “Prima gli italiani”. Una sola banalissima domanda: che fine avremmo fatto senza i vaccini condivisi?