Dentro lo smart working

Quante volte abbiamo vissuto momenti di transizione da un’epoca all’altra, quante volte ne abbiamo realmente percepito la portata? 

L’eco della pandemia tuttora riverbera nei nostri discorsi, negli anfratti delle nostre paure e dei nostri equilibri tra il passato e il futuro, ma mai come oggi capiamo che alcuni mondi stanno per prendere il sopravvento su altri. A partire dal linguaggio, sempre più anglofono e impersonale, sino a storpiare la dimensione del lavoro, la nuova frontiera dell’uomo economico tradotto in “uomo business”, ingranaggio del grande sistema, “big datato”, telelavorista senza titoli… ecco allora emergere dalle librerie, dai divani, dalle cucine un nuovo “Caesar domotico”, di carne ed ossa ma perennemente impresso su videocamera, vestito a festa per metà, crogiolante nella propria dismissione da ufficio, “agile” nell’abitare la nuova dimensione da remoto e altrettanto onesto nel ridefinire le priorità in obiettivi, progetti, destini aziendali. 

Siamo già nell’epoca delle abbreviazioni e smart” sta ad indicare questa realtà che di aumentato ha solo la lontananza, il distacco dalla vita novecentesca che fu, percorrendo, per dirla alla Benjamin, una “strada a senso unico” verso non si da dove, forse l’astrazione dell’individualismo che si fa realtà storica e agente della storia. 

Ma, andando al concreto delle definizioni, è nei siti ministeriali che troviamo il “verbo laico”: “Il lavoro agile (o smart working) è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività. La definizione di smart working, contenuta nella Legge n. 81/2017, pone l’accento sulla flessibilità organizzativa, sulla volontarietà delle parti che sottoscrivono l’accordo individuale e sull’utilizzo di strumentazioni che consentano di lavorare da remoto (come ad esempio: pc portatili, tablet e smartphone).”

Parafrasando lo “smart” in senso religioso, verrebbe da pensare al Qoèlet: cosa avrebbe potuto scrivere se non “tutto è vanità, il telelavoro è vanità, lo smart working è vanità…”. Certo che nella visione terrena delle aziende, c’è un sacco e un fuori sacco di tutto rispetto: contrattualistica decentrata, personalizzazione dei contratti, misurabilità dei risultati, ottimizzazione degli spazi, miglioramento della produttività, riduzione dell’assenteismo… stiamo ragionando ancora a una sfida dicotomica, come se fossimo di fronte al bene o al male, da opposte tifoserie. 

Trascuriamo forse che siamo già alla forma ibrida e che addirittura indagini Doxa ci dicono del disorientamento e stress da cambiamento: casa-ufficio-ufficio-casa.

Sembrano lontani i tempi in cui “pubblico e privato” si mantenevano a debita distanza. Ora si fondono, o peggio si nascondono l’uno dall’altro in filtri kitsch dei nostri teams, zoom, come fossero tendaggi virtuali delle nostre piccole timidezze e pudori – se ancora abbiamo accortezza di cosa possa significare il pudore – mentre cerchiamo di metterei al riparo da sguardi giudicanti almeno la nostra alcova. Sembra quasi si sia assaliti da una nuova sindrome, non più nimby (not in my backyard, non nel mio cortile) ma yimby (sì, invadi pure il mio piccolo pianeta).

Questa “sfumatura” tra vita privata e vita lavorativa d’altronde è il bello e il brutto di questa modalità di lavoro basata fondamentalmente sulla fiducia. Se in tempo di emergenza sanitaria le aziende (e i lavoratori) hanno fatto di necessità virtù, oggi il lavoro agile è rimasto tra le maglie che lega datori di lavoro e dipendenti, come un dato di fatto. Molte sono le aziende, del terziario of course che hanno scelto di non tornare al punto di partenza, e di mantenere quanto c’era di buono, dando quindi più spazio al binomio fiducia/responsabilità che aw quello orari/controllo. 

Mentre gioiamo per la possibilità di poter farsi recapitare gli acquisti fatti on line comodamente a casa, dove ci sarà sempre qualcuno ad aspettarli, cerchiamo di gestire lo stress dell’email del capo alle ore 22.34, che arriva mentre il film scelto per la serata provava a farci addormentare. Il “diritto alla disconnessione” infatti non è ancora un vero diritto, ma ogni singola azienda sta cercando di gestirlo come può. 

In Giappone, dove però vale la pena ricordare c’è un tasso di suicidi altissimo anche tra i lavoratori e dove la “morte per troppo lavoro” ha una sua parola sul dizionario, karoshi, ci sono aziende in cui si è scelto di impedire al server di ricevere email dopo un certo orario. Scelta drastica, per problemi drastici. In altre grosse multinazionali si cerca di educare il management a non aspettarsi un feedback “fuori orario” e di specificare, nel testo del messaggio, che non si pretende una risposta immediata, perché, proprio in ottica smart, può essere che capo e dipendente semplicemente non abbiano gli stessi orari: forse il CEO stamattina era a tennis. Certo non basta ad alleviare lo “stress da notifica”, ma sono apprezzabili tentativi primitivi di risolvere un problema relativamente nuovo.

 

È proprio del 7 dicembre 2021 la notizia che da sindacati e Confindustria è arrivato infatti il via libera al Protocollo nazionale che contiene le linee guida con cui disciplinare, nella contrattazione collettiva, la nuova modalità di lavoro agile. Tutte le parti esprimono grandi soddisfazione per la qualità del dialogo e dei risultati raggiunti che lasciano di fatto molta discrezionalità e flessibilità di applicazione alle singole aziende e ai singoli lavoratori all’interno appunto di un protocollo-quadro. Niente orari né straordinari, sì ai permessi e agli strumenti informatici messi a disposizione del datore di lavoro i principali punti toccati dall’accordo.