“Una mattina all’alba, ai primi di luglio del ’50, squillò in lungo ed in largo sui campi, dove allora non si udiva altro suono più alto delle voci umane e dei quadrupedi, un fischio di vaporiera. […] Faceva da sola in un giorno il lavoro di cento uomini. […] – Viene a portar via il lavoro ai cristiani, – diceva padron Lazzaro…”. Questo brano, tratto da “Il Mulino del Po” di Riccardo Bacchelli e ambientato nel 1850, ci dimostra, ancora una volta, come il confronto/scontro tra tecnica e tecnologia da una parte e lavoro umano dall’altra, accompagni da sempre la storia dell’uomo e dei suoi progressi, scoperte, innovazioni.

I nostri tempi non sono scevri da questa dinamica. Nella grande trasformazione del “lavoro digitale” o 4.0, le cifre distintive rispetto al passato sono la velocità e la radicalità dei processi di trasformazione. Per affrontarli Marco Bentivogli propone il concetto di “umanità aumentata”, quasi in contrapposizione o in risposta a quello di “realtà aumentata”.

I due pilastri sui quali costruire tale nuova dimensione dei lavoratori sono quelli della cura e della formazione. 

Cura. Bentivogli propone di inserire e integrare sempre di più la dimensione della “cura” nell’ambito di ogni esperienza umana nel lavoro. Bisogna far sì che, nel “nuovo” lavoro emerga sempre più la dote del genere umano meno contendibile dalle macchine, la nostra umanità o, come dice Bentivogli, per questo “nuovo” mondo del lavoro, “l’umanitàumentata”. Che comprende la capacità di costruire o ricostruire legami e reti sociali, in grado di realizzare diversamente le comunità del lavoro, del “nuovo” lavoro. Già da prima della frammentazione del lavoro, i luoghi di lavoro erano sempre meno comunità, sempre più abitati da monadi, dedite a curare il proprio orticello, l’interesse personale, senza quella coscienza di classe che aveva portato alla rivendicazione ed alla conquista di diritti collettivi. L’individualismo – il pensare prima a se stessi, l’anteporre il proprio bene, esploso negli anni ’90 per via della moltiplicazione e della frammentazione dei contratti di lavoro, con l’introduzione dei cosiddetti “contratti atipici” – dilagante nella società, è esploso anche nel mondo del lavoro. Anche tra i lavoratori ha vinto un’altra cultura che divide ed illude di poter “vincere” da soli, quella che negli anni 2000 ha portato qualcuno a pensare di poter essere più libero, senza la “zavorra” degli altri, di poter trattare singolarmente le proprie condizioni contrattuali ottenendone un vantaggio personale; tragico abbaglio: naturalmente la divisione ha portato i lavoratori ad avere meno forza contrattuale. E restare veramente più soli. Inserire la dimensione della cura è difficile ma necessario. Il digitale sta cambiando, sconvolgendo, tempi e spazi del lavoro. E i nuovi spazi vanno ripensati per contenere tempi diversi, tra cui appunto quello della cura. 

Formazione. Anche nell’ottica della umanità aumentata, la formazione è e deve sempre più diventare un diritto e un dovere dei lavoratori. Di fronte ad un mondo del lavoro mutato vanno innovate, manutenute, aggiornate le competenze – siano soft o hard skills – dei lavoratori. È necessario valorizzare i lavori, le imprese, i corpi sociali, dimensioni ideali per apprendere e crescere, nei quali non si smetta mai di crescere.

È tempo di introdurre il diritto soggettivo alla formazione, come nel contratto dei metalmeccanici, per qualsiasi contratto e lungo tutta la vita lavorativa. Il diritto alla formazione va considerato alla stregua dei diritti più importanti. Il costo orario di un robot industriale ha eguagliato quello di un lavoratore. La strada più efficace per attenuare l’impatto dell’incrocio dei costi è quella di aumentare le competenze dei lavoratori, trasformando la competenza in una sorta di moneta intellettuale da spendere sul mercato del lavoro. Occorre un forte investimento nella formazione, con l’intervento dello Stato per incentivare le aziende, tassando quelle che non formano i propri lavoratori perché oggi la formazione è ancora più strategica e determinante di un tempo e perché tali aziende rischiano di non rimanere al passo con i tempi ed essere espulse dal ciclo produttivo. In tale direzione vanno certificate le competenze e realizzati dei veri e propri “bilanci di competenze” – che, all’interno di ogni azienda, le certifichino e dimostrino se, nel corso del tempo, si accrescono o se vengono depauperate – e che si affianchino ai bilanci di esercizio, alla stregua dei bilanci sociali realizzati in particolare nelle aziende più avanzate.