Pausa pranzo. Vado nel bar vicino all’ufficio e pongo la domanda che ormai è diventata tipica negli ultimi mesi: “Qualcosa da mangiare”? Risposta: “Non ho potuto fare l’ordine al fornitore perché forse da domani siamo arancioni quindi non posso fare scorte, per cui ho solo le solite cose”. Il tutto, sia ben chiaro, con il sorriso del gestore del bar che, nonostante tutto, non perde mai.

Questo stato di perenne precariato è diventato una costante per molte attività, che a partire da marzo scorso si sono abituate, loro malgrado, a vivere un po’ alla giornata. Se il lockdown di marzo/aprile 2020 sembrava un’eccezione, a cui quasi “facilmente” tutti si sono adeguati, il seguito è stato molto più duro. Dopo
quei mesi difficili e una ripartenza lenta, da ottobre è diventato tutto molto imprevedibile: novità della giornata possono sconvolgere piani delle settimane successive e quindi si vive nella totale incertezza.

È difficile per tutti, ma ovviamente lo è meno per chi ha un reddito garantito e molto di più per chi dipende dal commercio, per chi il lavoro lo deve cercare ogni giorno, per chi vive della clientela che entra nel suo negozio. E se la clientela è bloccata a casa o nel suo comune, beh, le cose non possono andare proprio bene.

Si dirà: ci sono stati i ristori, i contributi, gli aiuti, il rinvio delle tasse. Tutto vero, tutto corretto, molti miliardi sono stati man mano destinati a questo. Sarà stato sufficiente? Saranno arrivati tutti? Saranno arrivati in tempo? Perché la variabile temporale potrebbe essere la più importante. Forse per la prima volta nella storia a fronte di una enorme crisi ci sono risorse economiche ingenti, alcune già immesse e altre in arrivo. Però il tempo corre, le attività soffrono, e c’è da chiedersi se quando le somme arriveranno, quando il fantomatico Recovery Plan darà i suoi frutti, le attività ci saranno ancora, o ce ne saranno meno.

Che fine faranno quelle che, nel frattempo, non hanno avuto la forza (economica, psicologica, umana) di resistere e attendere?
È anche il caso di chiedersi se, in questo “tempo”, si avrà avuto modo di pensare e ripensare il futuro. Viviamo in una situazione per la quale, appunto anche grazie agli ingenti aiuti statali, la situazione economica è di fatto congelata: aiuti alle imprese, anche se magari alcune erano già decotte; blocco ai licenziamenti, anche se magari riguardano posti di lavoro che sarebbero venuti meno a prescindere dalla pandemia.

Ha senso mantenere questo congelamento (aldilà delle ovvie e sacrosante ragioni di ordine sociale), che di fatto impedisce anche di investire in nuovi settori
o attività, abbandonando quelle che si sono rivelate superate o poco redditizie?

Appunto, il tempo: servirà questo tempo anche per capire che direzione prendere, dove investire queste risorse notevoli, per ripartire anche in modo nuovo, con un’economia nuova. Smart working, economia verde, riduzione degli spostamenti, etc… tutte novità che si sono imposte e dalle quali non torneremo indietro, se non in parte. Prendiamoci il tempo giusto affinché la ripartenza sia nuova, le risorse vengano investite sul futuro e non sul passato. Il tempo non torna, usiamolo al meglio. E facciamo in fretta.