Nelle cronache recenti della Chiesa bresciana si sono registrati due eventi apparentemente secondari, ma carichi di significato. Innanzitutto il seminario minore è stato sostituito da un “centro propulsivo di pastorale vocazionale”: si tratta di una trasformazione dettata sì da una volontà di rinnovamento, ma legata anche alla drastica riduzione degli accessi al seminario stesso.

In secondo luogo, il monastero di Santa Chiara a Bienno, a fianco dell’Eremo, viene chiuso e le suore Clarisse che vi risiedono da oltre trentadue anni si trasferiscono in altre case. La decisione, come accade ormai sempre più spesso nelle congregazioni religiose, è stata presa per il ridotto numero di suore oggi presenti a Bienno: secondo le regole le comunità devono essere composte da almeno sei persone e le Clarisse di Bienno sono rimaste in cinque. Le religiose lasceranno la casa a fine maggio: quattro destinate al convento di Lovere e una ad un altro monastero in Liguria.

Che le vocazioni religiose siano in crisi non è certo una novità, ma forse non sempre se ne conoscono le proporzioni. Per quanto riguarda la diocesi di Brescia, con l’aiuto dell’annuario diocesano, per quanto riguarda gli anni trascorsi dall’inizio della pubblicazione dei dati, si può delineare questo quadro (il secondo dato fa riferimento al 2020):

– i sacerdoti nel 1966 erano 995; sono 636;

– i religiosi nel 1972 erano 432; sono 219;

– le religiose nel 1966 erano 5300; sono 870;

– i seminaristi nel 1966 erano 719; sono 35 (28 in teologia).

Dal 2016 al 2020 sono morti 119 sacerdoti e i nuovi ordinati sono stati 27. Nei primi tre mesi del 2021 sono morti 6 sacerdoti, i nuovi presbiteri saranno 4.

In molti conventi non solo si riducono le presenze, ma l’età media di molti religiosi è si avvicina sempre più a quella che si registra nelle RSA. Del resto anche l’età media dei sacerdoti è sempre più alta.

Lo scorso anno, in piena pandemia, il sociologo Franco Garelli ha dato alle stampe una pubblicazione che presenta i risultati di una ricerca sulla religiosità degli italiani, svolta per conto della Cei nel 2107. É la fotografia di un cattolicesimo stanco (o “esausto”) con vari grafici sulla religiosità che da tempo seguono un piano inclinato. La crisi delle vocazioni è uno degli aspetti, fra i più significativi, della stanchezza.

Certo è che la comunità dei cristiani è di fronte a una sfida difficile perché una possibile rinascita, o quantomeno un’uscita dal torpore, è strettamente legata al contributo vocazionale.

Immagino che molti siano tentati di puntare il dito contro la cultura dominante, sempre più vicina all’indifferenza se non all’agnosticismo. Molto spesso la individuazione di un “nemico” è specchio della ricerca di un capro espiatorio sul quale riversare le proprie debolezze.

Quando si affronta il problema delle vocazioni se ne fa una questione di numeri e si ipotizzano iniziative che possono favorire dei recuperi, dal sacerdozio alle donne alla valorizzazione dei diaconi e via numerando. Non è peccato. Peccato che non sia una questione di numeri. Basta una riflessione quasi banale. Se pensiamo al piccolo gruppo di uomini e donne che sono usciti dal Cenacolo, dove la paura li aveva trattenuti per qualche tempo, certamente oggi abbiamo un esubero straordinario di persone che hanno ereditato e condividono idealmente la stessa missione. Senza contare tutti i mezzi, di ogni genere, a disposizione. E se oggi la cultura dominante è indifferente e/o diffidente, quella di quel tempo ignorava la proposta evangelica.

Non è una questione di numeri e di mezzi. Non è una questione sociologica. Non è una questione culturale. É una questione di fede. Agli apostoli che gli chiedevano di aumentare la loro fede Gesù rispose: «Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe». E poi ha aggiunto: «… quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Luca 17, 6 e 10).

La  posta in gioco, allora e ora, è la fede, cioè l’essenziale. Se abbiamo le antenne drizzate, il Covid può aiutarci a riscoprire l’essenziale. A quanti hanno mantenuto una quota minima di buon senso non è sfuggito lo scacco che il contagio ha imposto a tutte le presunzioni: abbiamo combattuto e stiamo ancora combattendo contro un nemico invisibile, portandoci addosso una dose tale di impotenza che ha lasciato sul terreno più morti di una guerra. Siamo servi inutili.

L’essenziale rimanda a un ammonimento di Simone Weil: «Un cristiano sa (o dovrebbe sapere – ndr) che un solo pensiero d’amore, rivolto a Dio nella verità, anche se muto e senza eco, è più utile per questo mondo dell’azione più straordinaria».

E mons. Rowan Douglas Williams, già arcivescovo di Canterbury e Primate della Chiesa anglicana ha osservato: «… la contemplazione rappresenta l’unica risposta definitiva al mondo irreale e folle che i nostri sistemi finanziari, la nostra cultura pubblicitaria e le nostre emozioni caotiche e incontrollate, ci incoraggiano ad abitare. Imparare la pratica contemplativa significa imparare ciò di cui abbiamo bisogno per vivere fedelmente, onestamente e amorevolmente. Si tratta di un fatto profondamente rivoluzionario» (Sinodo dei Vescovi sulla nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana, ottobre 2012). Oggi come duemila anni fa non sarà il numero dei consacrati o delle strutture a decidere le sorti della fede, ma lo spirito dei testimoni. Senza dimenticare il dubbio evangelico: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Luca 18, 8).