I dati parlano chiaro. Con una disoccupazione giovanile al 33,8% e ad un tasso di Neet (Neither in Employment or in Education or Training) al 23,3%, per non parlare della condizione spesso precaria e poco appagante anche dei giovani che pure un lavoro ce l’hanno, siamo di fronte a una proiezione della dimensione del lavoro grave e drammatica.

Le Acli da sempre indicano la strada della formazione come la più efficace per favorire e creare più e buona occupazione. Le imprese, infatti, non sono alla ricerca di un “lavoratore”, bensì di una persona con competenze, abilità e conoscenze precise. È da una buona formazione, a scuola/università, nella vita e in azienda, che si decide un’importante fetta del futuro professionale, sia esso da dirigente o da operaio, e quindi della possibilità di avere un lavoro equamente retribuito e tutelato, nonché soddisfacente.

Gli strumenti per operare questa strategia sono in gran parte già presenti, anche se sicuramente migliorabili e perfettibili. Ne ricorderei due su tutti: i Pcto (Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, che fino a poco tempo fa si chiamavano alternanza scuola-lavoro)e l’apprendistato. I primi dovrebbero rappresentare, dal punto di vista educativo e formativo, un momento fondamentale per maturare competenze soft e hard utili a posare i primi mattoni del profilo professionale di un giovane, nonché a prendere le misure su come funziona il mondo dei “grandi” e farsi un’idea di quali professioni svolgere in futuro.

L’apprendistato potrebbe (e dovrebbe) rappresentare una delle vie privilegiate dalle imprese per ingaggiare giovani talenti. Questo strumento, oltre che garantire un risparmio sul costo del lavoro, rappresenta uno strumento formativo dei giovani unico. Nella sua versione duale (primo e terzo livello), impresa e istituto formativo devono mettersi a tavolino per la stipulazione di un piano di formazione congiunta e personalizzata del giovane, finalizzato al conseguimento di un titolo di studio e allo sviluppo e apprendimento delle competenze che servono all’azienda. Un’occasione unica per sradicare il tanto lamentato problema del mismatch delle competenze, che in certe aree del paese supera il 30%.

La vera sfida per il mondo del lavoro è dunque quella di mettere a pieno regime questi due strumenti di conciliazione giovani-imprese che sono a disposizione. Non per portare avanti una battaglia di nicchia, ma perché, in un mondo del lavoro in continuo transito e trasformazione, la formazione integrale della persona deve essere al centro della questione occupazionale. 

Un approccio troppo sequenziale, rappresentato dall’idea che prima si studia e poi si lavora, senza neanche considerare la possibilità di un intreccio virtuoso tra questi due mondi, si traduce nei tempi biblici della transizione scuola-università-lavoro, quasi due volte maggiore in Italia rispetto alla media europea. 

Occorre implementare una preparazione al lavoro dei giovani che sia moderna e attenta alla persona, che tenga in considerazione le loro ambizioni e i loro desideri, ma che soprattutto sappia costruire ponti per una reale transizione nel mondo del lavoro. 

Perché sia per tutti, sempre, un buon lavoro.