Durante questi mesi di pandemia sono aumentate in modo esponenziale le separazioni e i divorzi. Il lavoro di tanti settori è andato in crisi e l’economia ha impresso un forte colpo di arresto. La scuola ha segnato il passo creando grossi buchi nel calendario della vita di molti ragazzi e adolescenti, quasi che la voce stessa “adolescenza” possa venire sostituita con “vita sospesa”. Gli adulti sono impauriti e incerti sia per gli sviluppi di questa pandemia sia per una crisi post-industriale che sconvolge tutti senza dare spiragli di un futuro più sicuro. Si corre il rischio di chiudersi in se stessi e di ridurre il vissuto alla dimensione dell’immediato, preoccupati di trovare soluzioni a breve raggio senza una libertà e una maturità spirituale che conduca in alto.

La stessa vita sociale è stata ‘regolata’ in parametri di distanza e di sicurezza.

La cultura sembra essere diventata soltanto un sogno. La religione sembra essersi diluita in rigagnoli virtuali. Verrebbe da dire che ha vinto la divisione sull’unione, la paura sulla speranza, l’accidia sull’entusiasmo.

Ma, guardando oltre la cronaca, la rabbia, l’egoismo e le divisioni, si alza una voce chiara, forte, coraggiosa e lungimirante, quella di Papa Francesco. «In questi momenti – ha scritto il Papa in Fratelli tuttici fa bene appellarci alla solidità che deriva dal saperci responsabili della fragilità degli altri, cercando un destino comune». È la fraternità, richiamata a più riprese sia in quest’ultima enciclica che nel recente viaggio in Iraq. Certo, rispetto alla libertà e all’uguaglianza, la fraternità ha patito un sostanziale oblio.

Ma oggi più che mai è il tempo di riscoprire una responsabilità condivisa e una solidarietà che superino la miopia dei particolarismi. Continuare a rafforzare l’individualismo, la privatizzazione, il vuoto delle istituzioni non favorisce l’edificazione e lo sviluppo di una communitas, in cui la persona vale per quello che è, dentro a «un legame che unisce tra loro tutti gli esseri umani, rendendoli fratelli e sorelle, con una particolare attenzione a chi è escluso, lasciato da parte, forestiero, straniero o comunque ‘altro’». (FT)

La consapevolezza di essere tutti connessi non è sufficiente, se non si apre alla qualità etica di questo legame, cioè alla responsabilità reciproca a tutti livelli, da quello personale, che resta insostituibile, a quello strutturale e istituzionale, fino a quello delle relazioni internazionali. La pandemia che il mondo intero sta attraversando ce lo sta mostrando con evidenza inconfutabile. Non significa solo che siamo tutti – ricchi e poveri, bianchi e neri, giovani e anziani – ugualmente esposti al contagio, ma anche che i comportamenti di ciascuno hanno un impatto immediato su tutti gli altri, contribuendo a proteggerli più che a metterli in pericolo.

Vale per le persone che ad ogni livello, anche con immense fatiche, stanno al loro posto anche quando “il loro posto” è diventato scomodo e addirittura pericoloso. Vale per i medici, gli operatori sanitari, ma anche per tutti gli insegnanti che ogni giorno entrano negli ospedali o nelle classi sapendo che, malgrado ogni precauzione, potrebbero ammalarsi o far ammalare.

Vale per le donne e gli uomini delle nostre istituzioni, a partire da quelle locali, che portano sulle loro spalle il peso della loro comunità assumendosi ogni giorno scelte difficili, spesso impopolari, anche dolorose.

Vale per le madri e i padri che stanno cercando di tenere insieme le loro famiglie, di continuare a dare ai loro figli una parvenza di serenità. Vale per quei figli e quelle figlie che hanno perso i genitori spesso senza nemmeno poterli salutare.

Vale per le tante realtà di volontariato che, hanno saputo portare aiuto in questi mesi, e con perseveranza, entrano nel cuore e nei bisogni delle persone sia con beni materiali che con il conforto di una parola e di un gesto di fiducia.

Vale per tutti coloro che si riconoscono nelle fede in Cristo che, con semplicità, danno testimonianza di solidarietà, di sostegno, di annuncio di speranza.

Vale per tutta la Chiesa, chiamata, dentro questa pandemia, a rimettersi in cammino, con sobrietà ed essenzialità, nella consapevolezza che Dio offre solo la direzione verso cui andare.

È allora che subentrano il coraggio e l’intelligenza, la creatività e la tenacia per rinnovarsi, per rileggere una esperienza pastorale e comunitaria che, per quanto consolidata nel tempo, richiede una nuova condivisione dal basso. La sfida è grande: bisogna fare in modo che le comunità cristiane continuino a essere una casa accogliente, un luogo di relazioni e di comunione. Tocca a noi studiare itinerari e prospettive, misurare fatica e forze, ripensare strategie e modalità pastorali, nel rispetto delle norme contro la pandemia ma restando fedeli alla propria identità.

Il Signore non offre un prontuario, accende obiettivi, poi affida alla nostra libertà e al nostro discernimento la capacità di leggere insieme i segni e i sogni del nostro tempo. Perché fuori dalla comunità non c’è speranza di salvezza.