INTERVISTA A C.D. SUL DDL ZAN

IL DDL Zan sulla omolesbobitransfobia è il recente e discusso decreto legge che prevede un inasprimento delle pene per reati che riguardano le discriminazioni nei confronti delle persone LGBT (lesbiche, gay, bisexual, transessuali), delle donne e delle persone disabili. Ne parliamo con C.D., psicologa e psicoterapeuta, consigliere in uno dei principali ordine di psicologi italiani, nonché persona che ha fatto l’adeguamento di genere alcuni anni fa da uomo a donna. Il suo punto di vista dunque è particolarmente prezioso e coinvolto. Le ho chiesto di discuterne a partire dalle questioni che il DDL solleva collegandosi alla sua esperienza umana e professionale.

L’intervista affronta diversi passaggi:
– l’esperienza personale della transizione sessuale;
– le discriminazioni vissute sia a livello privato che professionale
– le linee guida del DDL Zan sulla discriminazione delle persone LGBT e la sua opportunità
– Il contrasto e la prevenzione alle discriminazioni di genere

Puoi raccontarmi la tua esperienza di transizione?
Brevemente è un po’ difficile perché avendo un po’ di anni…Inizia quando inizi ad avere determinati pensieri e a sentirti quello che è la tua corporeità non corrisponde più di tanto al rimando che ti viene dall’esterno e soprattutto il mondo che hai attorno che ti da dei rimandi. Quindi è iniziata quando ero abbastanza piccola. I primi ricordi riguardano l’asilo e anche forse prima, quando giocavo, soprattutto con le bambole e grazie al cielo, ho avuto una parte della famiglia che ha sostenuto senza troppi problemi quelle che potevano essere dei miei desideri, insomma, che poi non nuocevano nessuno a quell’età.
Mentre l’altra parte della famiglia era molto molto contraria e mi ha colpevolizzata e fatta sentire questa cosa, come molto estranea. Io ho cominciato a rendermi conto che c’era qualcosa dentro di me che non corrispondeva a quello che gli altri percepivano e ho cominciato a organizzare i miei pensieri attorno a questo mio desiderio che comunque non spariva. Nel senso che io mi sentivo un po’ una bambina. Volevo stare con le bambine. Mi volevo vestire in un determinato modo, volevo mettere i sandaletti e le calzine, cose così. Poi questa cosa è andata avanti nel tempo e mi ricordo, siccome siamo sul corpo, le prime cose del corpo che hanno cominciato a darmi molto fastidio. Questo è estremamente imbarazzante, sono i segni della pubertà perché magari avevo i pelettini sul polpaccio e io ero terrorizzata da questa cosa. Mi ricordo che di nascosto prendevo il rasoietto e mi tagliavo sopra alla caviglia. Avevo circa 12 anni. Lì ancora avevo un retaggio di giochi come le Barbie. Facevo i vestitini per le bamboline, cose così, ma anche i cartoni. Mi ricordo che guardavo Sailor Moon al tempo. Però ecco, questo non corrispondeva
proprio con il maschile che avevo attorno e sebbene stessi cercando un po’ di far combaciare le due cose dicendo che “magari è un lato un po’ femminile che ho dentro, pazienza ”il mondo esterno continuava a darmi questo rimando, cioè che questo femminile non poteva starci. All’inizio ho pensato “magari ho un’identità omosessuale” , quindi ho cercato di farmela andar bene così.
Ho proseguito quasi 15 anni in questo modo, se non 20, e ho cercato di fare le cose nel modo il più graduale possibile. Ho detto: “va bene, allora cerchiamo di avere qualcosa che possa essere un’immagine più androgina possibile”, quindi avevo capelli semi lunghi e lisci, la faccina senza barba. Poi, insomma, questo diventava sempre più intollerabile, perché ovviamente era una vita di finzione e a un certo punto ho detto “non ci sto!”.
La sofferenza era notevole, diversi pensieri suicidari mi accompagnavano da anni. In quegli anni lì ho detto, facciamo un’analisi. E ho fatto un’analisi didattica, per quattro incontri a settimana. Frequente, anche perché ovviamente poi tutto si inscrive nella carriera professionale. Ho cercato di curare questa cosa con la terapia, ma in realtà la terapia non mi metteva in contatto con me stessa. Allora ho detto “pazienza, cerchiamo di essere il più autentiche possibili, ed essere me stessa” e quindi la parte un po’ più viva di quello che poteva essere l’aspetto transitorio, dove la transizione è soprattutto fisica e non è tanto psichica, anzi non lo è affatto psichica perché psichica lo era sempre stata la mia identità.
Ho iniziato la terapia ormonale al Niguarda a Milano. Ho fatto tutto da sola, non ho detto niente a nessuno perché sapevo che sarebbe stato molto difficile. Adesso siamo nel 2021, ma allora eravamo negli anni 2000. Ho iniziato la mia terapia ormonale nel 2008, ho fatto tutto con calma perché volevo essere sicura di ogni passettino che muovevo, perché ho questo aspetto interno molto preciso, pignolo e anche spaventato da quello che è successo attorno. Ho iniziato la terapia, anzi le terapie sono due: una terapia anti androgena, che abbatte il testosterone, e una parte estrogena che quindi favorisce l’aspetto più femminilizzante del corpo. Prima ho iniziato con l’antiandrogino per un annetto, poi dopo ho preso anche gli estrogeni in terapia combinata e poi dopo ho fatto un intervento. Ecco, il tutto fa parte anche di un percorso un po’ più standardizzato, dove ti seguono tout court. Ho incontrato un genetista che ha controllato l’impatto delle terapie. Ho fatto una serie di analisi, ecografie, indagini. Ero seguita da endocrinologo, psichiatra, psicologo. Insomma ero un topino da laboratorio ma mi ha fatto bene.
L’esperienza l’ho vissuta con tante altre persone in cui è chiaro che l’identità si declina in diversi modi, però ci sono anche tante sofferenze che possono accavallarsi e mascherarsi da disturbo dell’identità. Sono stata in mezzo agli psicotici e ossessivi a pazienti gravi anche i ricoverati e quant’altro che manifestavano disagio di questo tipo. Alcuni poi dopo, siccome li ho sentiti per anni, non avevano quel tipo di problema e il sintomo cambiava ed andava via. C’erano anche persone normali, che stavano lì a chiacchierare in sala d’attesa, aspettando che ci facessero queste visite. Devo dire che le visite sono servite, sono state un buon supporto. Mi sono sentita un po’ protetta. Èchiaro che il tutto è molto, molto lento e quando si decide di effettivamente dare voce al proprio desiderio interno, si arriva un po’ già agli
sgoccioli e si vorrebbe una celerità maggiore.
Ho fatto l’ intervento all’estero perché qui non hanno know how sufficientemente buono secondo me anche a livello un po’ estetico e funzionale. L’ho fatto in Thailandia, lì è andato tutto bene e devo dire che dopo tutta questa fase di turbolenza di volo, ci sono degli aspetti anche anagrafici che vanno sistemati. Quella è una delle parti più imbarazzanti , nel senso che è anche quella che mi ha fatto perdere più lavori e mi ha messa in difficoltà e in grave crisi economica. Perché ovviamente sull’albo c’è scritto il nome in un certo modo, sui documenti un altro; pur non volendo il tuo corpo è davanti a te, quindi tu arrivi e le persone pensano qualcosa di te, prima ancora che ti conoscano. Quando vai in farmacia o ti fermano per il controllo in strada, vedono quello prima di te. Vedono la tua immagine, poi vedono il documento e c’è quel problema lì. Io sono stata attenta, non mi veniva da vestirmi in maniera, particolarmente, stereotipata. Niente femminile estremizzato, mi vesto così, con i maglioncini. Ecco, ero così prima e sono così adesso. Credo che questo mi abbia aiutata, non mi interessava più di tanto essere seduttiva. Gli uomini sono molto attraenti ma il mio obiettivo non è certo quello di sedurli sessualmente. Ho visto altre che magari mettevano nell’approvazione maschile il loro bisogno di conferma e lì ti freghi, perché dipendi dagli altri. Insomma, devi piacere a te stessa, ma è chiaro che arriva un po’ da una lotta. Io mi sento così e non ho voglia di cambiare, ne ho già fatte abbastanza.

Tu sei la prima prima psicologa italiana che fa la transizione che tu sappia?
Che la fa un po’ tutta sì. Ma che indugiano sul territorio ce ne sono altre. Adesso sono arrivate altre richieste, poi sai, quando una fa da apripista, le altre vanno via…

Ti sei mai sentita, in quanto persona che ha fatto la transizione, oggetto di discriminazioni?
Beh, sì, soprattutto agli inizi. Nel senso sia fisico sia psichico. Ad esempio, quando devi andare in bagno, non sai dove andare perché se vai in quello maschile ti prendono come il travestito che vuole fare chissà quali approcci sessuali. Se vai in quelli femminili, le femmine si accorgono, magari ti dicono: “ma scusa, cosa fai qui? puoi uscire?” Però tu devi andare in bagno, non te ne frega niente né dell’uno né dell’altro. Poi a livello professionale ho perso molti lavori, uno anche in un Comune: era stato fatto il mio nome a un tavolo di lavoro, io non ero presente, e un’altra collega, tra l’altro una psicologa, che faceva la referente per l’ordine, ha detto: “No! Non possiamo coinvolgerlo!” Io avevo già finito la transizione, è successo tre anni fa. Però comunque disse “Quello è un viados, non possiamo coinvolgerlo!”. Fu pesante. Due colleghe volevano fare una segnalazione deontologica perché è una cosa gravissima che una psicologa dica di fronte a tutto il tavolo una cosa del genere, ma io ho detto: “per l’amor di Dio, vi prego no! Apprezzo ma non ho voglia di creare problemi.”.
I pazienti li ho persi tutti quasi. Alcuni hanno finito e quelli nuovi dopo il primo colloqui se ne andavano, perché io dovevo firmare la ricevuta con un certo nome e loro ne vedevano un altro. Tutta una serie di incongruenze che poi le persone ovviamente non tolleravano. Anche perché io non lavoravo nello specifico con le persone transessuali, ma arrivavano pazienti che avevano diagnosi di ogni tipo. Quindi ho affrontato in maniera silenziosa altri pregiudizi.
Sono stata esclusa da altri ambienti di lavoro. Quando lasciavo il curriculum erano tutti estremamente gentili, ovviamente non mi hanno mai insultata, ma nessuno mi ha mai neanche più risposto ed è stato molto, molto brutto. Ho trovato accoglienza in un gruppo politico di psicologi, ma nel complesso sono stata proprio da
sola.
Sono stata esclusa anche dalla mia famiglia, mi è rimasta solo la mamma.
Con i ragazzi, che non erano il mio primario interesse, è stato difficile. Chi non capiva, in realtà, mi trattava come una ragazza normale. Chi capiva, invece, aveva sempre un interesse un po’ perverso, in cui il mio corpo era più la parte genitale e loro erano interessati a quello e quindi mi seducevano. Sono stata anche presa in giro.
Alcune persone mi han detto: “ma non sei una donna vera!”, e magari hanno anche ragione, non so. Mi dicono anche: “non puoi avere figli e quindi non sei una femmina”. L’ultimo è successo poco tempo fa. Sono stata con un ragazzo per circa un paio d’anni, e a un certo punto mi ha detto: “tu non hai il mestruo, non sei
una ragazza vera, io in futuro voglio dei figli e tu non puoi averne”.
La transizione per me è un pezzo della mia vita, non è la parte centrale, ma è una cosa che non andrà mai via ed è un po’ una disabilità da un punto di vista sociale, con cui devi fare i conti sempre, perché se non lo dici prima o poi salta fuori, se lo dici poi dopo hai gli effetti, quindi la discriminazione a livello affettivo, economico, sociale, lavorativo, familiare c’è su tutti i livelli.

Parliamo un po del DDL Zan: Cosa ne pensi delle linee guida contenute nel DDL, in particolare in materia di lotta alle discriminazioni alle persone LGBT. Quali linee di guida ritieni più interessanti e stimolanti?

Il Ddl è articolato, quindi ha tanti aspetti ed è anche complesso. Credo che il suo valore simbolico sia l’aspetto principale che può portare avanti, ci racconta finalmente di una riflessione su un tema che in realtà è presente da molto grazie al movimento LGBT. Si sente che c’è un humus, un substrato attorno un po’ fertile in termini di accoglienza e quindi queste realtà, le persone che vivono queste esperienze, lo raccontano in maniera più chiara.
Non hanno più voglia di essere legate solo a una vita di tipo sessuale, anche perché gli orientamenti si definiscono sessuali però piano piano si stanno avviando verso
quella che è una concezione anche affettiva. Perché una persona omosessuale non è solo una persona che fa sesso con un’altra del suo stesso sesso. È una persona che vuole bene, che ha una vita, una professione, degli obiettivi. Quindi credo che il DDL racconti di una complessità esistenziale di questo tipo. Si prende anche cura di tutto quello che sono gli aspetti omofobi, in una declinazione che è anche corporea e fisica.
In Lombardia solo l’anno scorso abbiamo avuto testimonianze di 174 vittime di discriminazioni e violenze sul sito www.omofobia.org. Cioè un giorno sì e uno no una persona LGBT viene discriminata, licenziata, picchiata. Dunque si tratta di violenza psichica, fisica.
Man mano che una persona diventa adulta , ha anche un po’ meno rete sociale, è meno inserita a scuola, non ha un gruppo che frequenta come prima. Di solito gli amici se li sceglie in maniera anche tutelante verso se stesso/a. Però se non c’è una cultura più inclusiva rischiano di essere discriminati.
Occupandomi di questo aspetto, posso dire che arrivano in terapia dei tredicenni/quattordicenni che magari a scuola non ce la fanno più perché i compagni non gli rivolgono la parola. Oppure mi viene in mente una ragazzina che non è nemmeno omosessuale, perché lei si sente “bi”, che ha avuto la morosina e adesso dice “io sto bene con un ragazzo”. La prendono in giro tutti, nessuno la prende sul serio. Sono delle cose veramente umilianti in un’età in cui non hanno le difese, anche
mentali, per far fronte a questo tipo di di realtà che deriva da un pregiudizio, legato a quello che ci viene detto e trasmesso in maniera più o meno consapevole dalla cultura che abbiamo attorno.
L’omofobia si rischia di interiorizzarla. I genitori che in maniera più o meno diretta trasmettono un certo tipo di messaggio, danno un feedback di un certo tipo, che poi bambini e ragazzi interiorizzano, agendo di conseguenza. Come se poi gli omosessuali fossero tutti uguali!
Quindi credo che il DDL ponga l’attenzione soprattutto sulla diversità, ma non nel senso di: “Siamo diversi” , ma anche: “ I diversi sono diversi tra loro”. C’è una persona più o meno attivista o più o meno interessata alla questione, così come il gay che sa giocare a calcio e che magari stupisce. Insomma, le persone hanno una vita al di fuori di quello che è il loro orientamento e di quello che fanno in camera da letto. Magari mi interrogherei sul voyuerismo di chi è così curioso. Perché in fondo chi se ne frega di quel che fanno in camera loro? A me non interessa!

Il DDL Zan prevede sanzioni penali, in particolare per coloro che utilizzano un linguaggio che incita all’odio, all’intolleranza, alla discriminazione sul genere e sull’orientamento sessuale. A tuo parere c’è bisogno di questo ulteriore affondo o era sufficiente la legislazione vigente?

Questo è un punto molto delicato e credo che non ci sia la risposta giusta o sbagliata. Penso che questo tipo di esplicitazione arrivi anche dalla consapevolezza di chi siamo, come italiani e cosa abbiamo attorno. Abbiamo visto in tanti modi che se non ci sono delle sanzioni le persone fanno un po’ quello che vogliono. Lo vediamo col covid e quel che è successo: c’è stato chiesto di prestare attenzione ad alcuni elementi, ma non è stato fatto. A me sono morte due pazienti, è stato orribile. A
Natale e Capodanno hanno fatto feste e cenoni e si sono ammalate. Oppure lo si vede con gli ECM (Educazione Continua in Medicina), un obbligo deontologico e professionale: si tratta di persone, medici e psicologi, che hanno un obbligo di formazione, ovvero una necessità finalizzata a implementare un sapere utile alla cura e all’aiuto del paziente. Ecco tutto questo viene trascurato a meno che non ci sia una sanzione. Più della metà dei nostri medici non la fanno. Spesso se non ci sono delle sanzioni l’italiano medio fa spallucce.
Non so se le sanzioni previste dal DDL sono adeguate  non mi esprimo e lo lascio ai giuristi. Però mi chiederei come mai han scelto di farlo. Penso sia importante capire che se si è arrivati a quel punto è perché se le persone non sentono che c’è un contrappeso non rispettano. Sarebbe auspicabile che ci fossero dei modelli più simili a quelli Norvegesi, in cui non c’è bisogno della pena ma c’è il rinforzo. Come dire: “hai fatto bene e ti sostengo nella virtuosità”.

Credo che uno degli elementi che forse ha giustificato questo inasprimento ha a che fare con il numero delle vittime al quale accennavi prima no? 174 persone LGBT uccise o vittime di discriminazioni, offese, picchiate, in un anno, sono un numero importante.
E quelle sono solo quelle dichiarate che hanno scelto di fare poi denuncia, perché ci sono quelli che non la fanno. Il tutto per uno che lo fa in camera propria, che io dico: “mah, è così interessante? Non riesco proprio a capirlo!”

Quali altri importanti questioni solleva il DDL secondo te?
Innanzitutto il posizionamento dell’Italia all’interno dei Paesi europei relativamente a livello di inclusione. Ogni anno l’ILGA (osservatorio europeo sull’inclusione delle persone LGBT) pubblica un report internazionale sul livello di inclusione raggiunto nei 49 paesi UE. L’Italia raggiunge il 23%, al pari di Ucraina e Lituania. La Francia raggiunge il 56%, la Spagna il 67%, la Grecia 50%. In Grecia, dove ci sono aspetti religiosi più rigidi dei nostri, hanno più inclusione. Inclusione significa una normativa che non sia semplicemente quella della punizione laddove non rispetti la diversità, ma una normativa che aiuti e vada in maniera capillare a risolvere tutte le varie problematiche. Anche di tipo giuridico, come ad esempio le unioni civili, così come per gli aspetti sanitari. Da noi nella pubblica amministrazione manca un sapere su questo. Quindi credo che il DDL racconti anche di un bisogno di formazione specifico.
La discriminazione colpisce degli aspetti nucleari, del sé, che non possono cambiare, perché la persona omosessuale non può cambiare e quindi questo ha un
impatto molto diverso che su altre persone.
Sono anni e anni che vengono pubblicati questi report e nessuno fa niente. L’Italia è stata la culla della cultura in Europa, quindi sarebbe bello che anche su questo riuscisse a muovere dei passettini. I problemi che gli omosessuali portano sono problemi di tutti: sono stressati sul lavoro, hanno il papà o la mamma che rompe le scatole, hanno problemi che sono quelli di tutti.
Le ricerche scientifiche hanno evidenziato quanto le esperienze della prima infanzia non abbiano un ruolo significativo per quanto riguarda l’orientamento sessuale. In tutte le culture, la maggior parte è eterosessuale e una minoranza è omosessuale, però ci sono più prove a sostegno delle cause biologiche dell’orientamento sessuale rispetto a quelle sociali. Specialmente per i maschi. Poi l’impatto e della sensibilizzazione della formazione racconta anche di quelle che possono essere le
differenze tra outing e coming out* nella crescita. Cioè i ragazzini riuscirebbero a fare coming out più per raccontare loro stessi come si sentono, piuttosto che non avere il compagno o la compagna che li prendono in giro.

Oltre che con provvedimenti legislativi e repressivi, secondo te in quali altri modi si può contrastare una cultura della discriminazione sul genere e l’orientamento sessuale?
Penso che forse il motto “fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”, potrebbe essere la cosa importante. Più che agire sempre contro qualcosa, si potrebbe fare qualcosa che sia più inclusivo, come aiutare le persone che fanno fatica e promuovere inclusività a più livelli. Magari non solo per le persone LGBT, e infatti il DDL è una mozione più relativa alle minoranze sessuali in generale. Esiste infatti una discriminazione diffusa anche per la disabilità nel nostro paese, così come verso le donne. In realtà significa avere delle pari opportunità di accesso alle risorse e al lavoro, non solo agli aspetti economici. Le mamme, ad esempio, vengono discriminate. Perché sei una donna, sei la mamma, allora dovrai sicuramente andare a prendere il figlio, sarai meno performante al lavoro, più assente, ma non è sempre detto.
Quindi ecco, essere inclusivi su più livelli e non solamente sulle minoranze sessuali secondo me è un passo importante perché credo e possa aiutare a fare uno sforzo non facile. Che poi significa conoscere, mettersi in discussione, abbandonare certi principi, certi pensieri, preconcetti, e far capire che facciamo tutti ugualmente fatica nel mondo. Come scriveva Tolstoj in Anna Karenina: “le famiglie felici si somigliano tutte, le infelici sono infelici ognuna modo proprio”. Ecco, facciamo tutti fatica a nostro modo e capire che questo è un aspetto che ci unisce, anziché dividerci può essere auspicabile.

*Outing e coming out riguardano la confessione pubblica di un fatto o di un’esperienza personale, specialmente a proposito della propria omosessualità.